venerdì 15 giugno 2012

A me la mossa, again.


Sta a me. Ora sta a me.

Arriviamo in contemporanea, stamattina. Lei leggermente in ritardo, io casualmente in anticipo. 
Scende dalla bicicletta. Abito rosa antico, cintura sottile, di cuoio, in vita. Orecchini pendenti, molto lunghi, con due perle a goccia in fondo.
Occhi di quell’azzurro-grigio che ho notato la prima volta.
La prima volta… me la ricordo? Era… dicembre. Avevo lasciato da due settimane la clinica di Milano.
Faceva freddo, aveva appena smesso di nevicare. Avevamo appuntamento alle 18. Via, numero civico.
-Credo sia questo… sì, è il suo cognome.
Mia madre che osserva il palazzo e commenta con un: -Certo, quella di prima aveva uno studio un po’ più promettente…
C’era un buon profumo sulle scale. Pulito. Caldo, ma non soffocante. Tiepido.
Salivo cercando di non produrre rumori. “Non la sento mai arrivare, sembra un gatto.”, mi aveva detto, una volta, l’altra dottoressa.
Secondo piano. Porta di sinistra. Si apre.
-Buonasera.- voce soffusa, velata. Sorriso. Occhi azzurro-grigio che mi guardano e tentano di non farmi scappare, da subito.
Sapevo di avere occhi scuri e diffidenti. Sguardo distaccato, razionale.
Ero spaventata, sulla difensiva, arrabbiata. Come ogni volta che dovevo conoscere un nuovo medico.
Stretta di mano.
Mi hanno sempre fatto i complimenti per la mia stretta di mano. Soprattutto gli uomini. Mi guardano, increduli, e commentano con un “Però.”, di solito.
Le strette di mano deboli sono come la birra calda.
La sua stretta di mano fu decisa, ma non prevaricatrice. Come il suo sguardo.
Lo apprezzai, senza darlo a vedere. Ovviamente.

Entrammo in quello studio, e mentre mia madre spiegava la mia inspiegabile vita, io assimilavo dettagli. Il tono di azzurro delle pareti, azzurro scuro. La luce, che proveniva da una lampada posata su un mobile lungo e basso, e che sembrava sdraiarsi sulla tonalità di quei muri, accarezzarla.
Le finestre. Alte, con gli infissi dipinti di bianco. I vetri sottili.
La libreria.
Due poltroncine a righe, che dopo un anno sarebbero state sostituite e sistemate nella sala d’aspetto.
La scrivania e le sedie antiche, di pregiato legno scuro. Lo toccai, mentre mia madre parlava, seguendo le venature di quel legno, soffermandomi sui nodi.
Indossavo un vestito di cachemire grigio. Con lo scollo a barca. 
Collant leggere, grigio scuro.
Chignon, forse.
Ero minuscola. Occupavo un terzo di quella sedia.

Quando uscimmo, aveva ripreso a nevicare.
-Mettiti il cappotto.
-No.
Volevo credere in qualcosa. Fosse stato il gelo di quella neve, volevo crederci fino alle viscere.

I primi mesi sono sempre faticosi. Si ricostruisce la propria vita, si scava, si trivella, si apre il passato come si aprono le carni. È di una violenza inaudita.
Uscivo da scuola, infilavo gli auricolari dell’iPod, prendevo il treno, dormivo, arrivavo, camminavo, toglievo gli auricolari dell’iPod, 45 minuti, rimettevo gli auricolari dell’iPod, riprendevo il treno, arrivavo, camminavo, entravo in casa, mi sdraiavo sul letto, rimanevo lì tutto il pomeriggio, al buio.
Studiavo la notte.
Il primo anno non piansi una lacrima. Il primo anno mi sedevo e rimanevo in quella posizione durante tutta la seduta. Il primo anno restavo in silenzio. Il primo anno ci osservavamo.
Il primo anno mi sentivo in colpa. Il primo anno soffocavo nell’egocentrismo di quei quarantacinque minuti della vita di una persona spesi ad ascoltare me, che non avevo altro da raccontare se non i miei fallimenti, le mie discussioni con mia madre e la mia vita da adolescente depressa del cazzo. Il primo anno mi vestivo sempre di nero. Il primo anno c’erano due sedute a settimana.
Il secondo anno iniziò con un “Sto concretamente pensando al suicidio.”
Proseguì con mesi di razionale autoanalisi. Parlavo. Non volevo domande.  
-E’ gelida come un’assassina.
-L’anoressia non è altro che la tortura di una morte lenta a sopraggiungere, in fondo.
Mesi che si conclusero con quarantacinque minuti di pianto incontrollato. La disperazione. Eravamo arrivate alla disperazione. Finalmente.

Dopo? Dopo abbiamo iniziato a costruire. Perché io non dovevo ricostruire, dovevo costruire.
L’anoressia scomparve. Benvenuta, bulimia.
L’anoressia è rimasta solo in pubblico. Nel privato, ho trovato una ben peggiore compagna.
Il cervello si rifiuta di impiantare qualcosa di stabile e sicuro, quando è abituato a dover, prima o poi, rinunciare a tutto.
I disturbi alimentari non sono che un’eccezionale metafora: vuoi scomparire e allora smetti di nutrirti, credi di non contare nulla per gli altri, al punto da voler occupare meno spazio possibile nelle loro vite, e allora dimagrisci, per occupare meno spazio possibile anche nella realtà, arrivi a considerare il cibo come qualcosa di sbagliato, profondamente sbagliato, poi, chissà come, ricominci a mangiare, e allora vomiti, perché il cibo rimane sbagliato, insensato, un veleno incapace, ora, farti bene.
Semplice.

La fine del Liceo, la non-scelta dell’Università, le mille persone, la rinuncia agli studi, quel lavoro di merda, l’altro lavoro.
-E’ fidanzato, e allora, Agnese?
Era una brava dottoressa. Sapeva instillare il dubbio alla perfezione.
-Indovini? Ho fatto quella cazzata che, un mese fa, le ho detto non avrei mai potuto fare.
Secondo corso di Laurea. La fatica dell’autunno.
-E’ finita, ieri sera. E, sempre ieri sera, mio padre, all’una, se n’è andato, per l’ennesima volta. E… pensi, io oggi compio vent’anni.
Ottobre. Novembre. Dicembre.
Il lavoro in libreria. Altre persone, Persone.
Sei mesi. Di Tutto. Di sedute saltate, di sedute svogliate, di sedute in lacrime, di sedute bastarde, di sedute arrabbiate, sedute preoccupate. Di me in jeans bucati e canottiera. Di me in stivali, vestito e occhiali da vista. Di me perfettamente truccata. Completamente struccata. In ritardo. Seduta, svaccata, gambe accavallate, gambe incrociate, una gamba piegata sotto il sedere. Chignon, capelli sciolti, coda, treccia.
Di “oh, ha messo il lettino”, e io rimango seduta.

Di: -Dottoressa, io vorrei interrompere la terapia.

Siamo salite, stamattina. Insieme.
I gradini hanno scricchiolato, come quella sera di dicembre.
Mi sono seduta davanti alla scrivania, come quella sera di dicembre.
-Sta a me, ora.
-Sta a lei.
-Ci vediamo a settembre, allora, vediamo come va. Ma si ricordi che i disturbi alimentari sono inequivocabile segno di qualcosa che continua a non andare.
Ho sorriso. Mentre un brivido mi congelava la colonna vertebrale.
Ho salutato quelle pareti azzurre, uscendo. Le finestre aperte. La lampada, spenta. L’odiato lettino. La libreria, dove ora albergano anche numeri di Arabica. Le sedie a righe della sala d’attesa.
Ho salutato, con gli occhi, tutti questi anni.  

Io non so se ce la faccio. Ma ora sta a me. 

sabato 24 marzo 2012

Did I say that I need you?

E, alla fine, altro non siamo se non Vite che s'intrecciano, che s'intersecano, che s'incastrano.
Ho un Oceano che si agita, turbato da venti e tempeste, nella mia testa. 
Troppi sbalzi d'umore, nemmeno me stessa riesce a starmi dietro. 
3- 4- 3- 2- 1 + 1/2- 2, le ore di sonno di questa settimana. 
Una Vita fatta di cocci che tenta di ricomporsi. 
Nessun libro che sia possibile leggere, se non quello. 

Precarietà. Paura. Vertigine.
Abisso. Baratro. Albatro. 
Milano. Sera. Solo un'ombra. 
Letto. Lenzuola. Braccia. 
Pezzi-di-me.

Alba. Luci. 
Oceano. Mare. 
In-stabile.
In-quieta.
Per-turbata.
Universi.
Persone.


[E non state a controllare la metrica, la sintassi, i cazzi e i mazzi, oggi non me ne frega niente, oggi batto le sensazioni, su questa tastiera, senza filtri, senza rileggere.]

Casa, dove sei?
Tu, dove sei?
Me stessa, dove sei?

Né Bene né Male, solo irrequietezza. 

Inchiodata a te. Inchiodata a me.
Non te ne andare. 
Non ti lascio andare. 

martedì 20 marzo 2012

We love us.

"Sai di lacrime."

Provo a scriverne, da ieri. Provo a scriverne, per intrappolarlo nella carta, perché non se ne vada mai. 
[Lo sai, il terrore che ho che le cose svaniscano, scivolino via, perdano colore, contorni...]
Provo a scriverne e... e non ci riesco. 
Tanto. Tutto. Troppo? Mai. 
Totale. 

Della tua schiena non voglio mai stancarmi.  
Dei tuoi occhi. 
Delle tue mani. 
Delle luci che sappiamo catturare.
Della Natura che ci viene appresso. 
Delle sigarette, dell'uscire solo per andarle a comprare, tuta, felpa e sulla pelle noi. 
Della musica, che sembra spegnersi solo in certi momenti, quando, tanto, non la sentiremmo.
Dell'improvvisare. 
Dello scoprirsi. 
Del conoscersi. 
Dell'Essere, insieme. 
Del restituirsi la Vita così.

Amarti. Amarsi. Essere amata.

Mi dici che mi ami e mi chiedi se mi amo. 
Io... insegnami come si fa. 
In francese, magari. 

On air
Magnolia, Negrita
L'odore, Subsonica
Feeling this, Blink 182
Wishlist, Pearl Jam
... us. 


mercoledì 14 marzo 2012

Let's just breathe.

Giornate infinite che galleggiano nello spazio fra te e il mondo. 
Vieni a vivere come me, andiamo a vivere come noi. 
Bevo thè nero alla vaniglia, ascolto i Pearl Jam. Mi si è di nuovo aperto il labbro. 


Sono stanca... stanca, davvero. Giorni assurdi, tortuosi, immensi, gli ultimi. Sonni troppo brevi. Ma a che serve dormire... come faccio a dormire, quando ho tutto questo. 


Sento la tensione della corda che si sta per spezzare. 
-Ci sei a cena?
Sì, ci sono. Sì, ci sarò. Non farmi male, ti prego, non sbriciolare, come sempre, ogni cosa bella che ho. 
Non togliermi l'aria. 


Sei aria. Sei Vita, sei Vita che inizio a vivere. 
Manchi come la libertà. 


[...e sai tutto quello che scriverei, qui. E sai tutte le volte che ti bacerei, tutte le giornate che trascorrerei con te. Luci Rembrandt, parquet scuro. Albe e tramonti. Pelle. Le mille sfumature dei tuoi occhi. Il tuo modo di guardare il mondo. Il tuo modo di guardarmi. Nel tuo sguardo posso cadere. Sei una Vita che continuo a scoprire, sei una Vita che voglio vivere. E... il resto lo sai.]


...mi sento osservata. 
Mi sembra che questa casa si sia improvvisamente popolata. 
Ma... c'è posto per tutti. Devo solo decidere come gestire gli spazi. 
Giocatori, anche voi?

venerdì 9 marzo 2012

Speechless

Certe notti accadono.
Certe notti ti esplode il cuore.
Certe notti rimani a guardarti spaccata in due.
Certe notti ti sfuggono parole fra le dita, fra i baci, fra gli sguardi.
Certe notti ti chiedi come sia possibile, tutta quella Vita.
Certe notti non sai nemmeno come descriverle.


Siete Luci nel mio Abisso.

domenica 26 febbraio 2012

Albatros


Ogni mattina il mio stelo vorrebbe levarsi nel vento
soffiato ebrietudine di vita,
ma qualcosa lo tiene a terra,
una lunga pesante catena d'angoscia
che non si dissolve.
Allora mi alzo dal letto
e cerco un riquadro di vento
e trovo uno scacco di sole
entro il quale poggio i piedi nudi.
Di questa grazia segreta
dopo non avrò memoria
perché anche la malattia ha un senso
una dismisura, un passo,
anche la malattia è matrice di vita.
Ecco, sto qui in ginocchio
aspettando che un angelo mi sfiori
leggermente con grazia,
e intanto accarezzo i miei piedi pallidi
con le dita vogliose di amore.


Ogni mattina, Alda Merini



La pistola che ho puntato alla tempia si chiama Poesia.

La pazzia mi visita almeno due volte al giorno.


Mi sono sempre uccisa da sola.

mercoledì 22 febbraio 2012

Prove di convivenza 1.0


Mi sono persa una giornata. 
In senso fisico, temporale, concreto. Ho dormito per circa 30 ore. 
Un po' la febbre. Un po' il mal di testa. Un po' la vita che non ti risparmia e che tu sei lì ad aspettare.
I miei occhi hanno una strana linea color grigio scuro a contornare l'iride, oggi. 
Sono... tranquilli. Placidi. Lucidi. Sembrano liquidi. 
Non mi sto ponendo troppe domande. 
Ho le emozioni a fior di pelle. 
Ricordi notevoli. 
Crisi d'astinenza. 
Un film che non riuscirò più a guardare da sola, probabilmente. 
Mani. Occhi. Lacrime. Sorrisi.
L'amicizia sembra un sentimento troppo umano per poter racchiudere tutto questo.


Finirete per salvarmi, voi due.