giovedì 29 dicembre 2011

Boulevard of Broken Dreams

C'erano le strade deserte, le canzoni malinconiche che uscivano dagli auricolari, i raggi obliqui del sole che iniziava a calare. 
Agli angoli delle strade e nelle piazze incontravi solo i ricordi e i fantasmi delle passate storie d'amore.
C'era lui. E lui. E lui. E lui. E altri lui. 
C'era un tramonto che diventava alba, e poi notte. 
C'erano le mani gelate, i tagli che si riaprivano, ma che non sentivi bruciare. 
C'erano porte che tempo fa aprivi quasi senza bussare, c'erano finestre dalle quali anni fa entravi la mattina, c'erano le auto parcheggiate isolate, nascoste per nascondere.
C'erano lacrime ormai asciugate a rigarti le guance, c'erano i passi veloci scanditi dalla voglia di fuggire, c'era un parco deserto e la sua panchina riparata, che abbracciava tristezza e rabbia in giornate senza casa.
C'era una grossa scheggia di vetro infilata nello stomaco, nel sovrapporre fotografie a ciò che i tuoi occhi vedevano.
C'erano campi di pallavolo con la rete smontata, e l'eco di un pallone sul cemento. C'era la casa di un'amica che non hai mai voluto salutare, per paura che se ne andasse davvero. 
C'era lui al tuo fianco, per cacciare la solitudine e il freddo. 
C'erano le parole che avresti voluto dirgli, frasi che tessi nella tua mente fingendoti una romantica Penelope in attesa del suo arrivo. 
C'eri tu, che continui a scappare alla ricerca di un'uscita d'emergenza, di un po' di ossigeno, della sensibilità necessaria per sentire il calore. 


No, c'erano solo delle strade vuote, un iPod impostato sulla riproduzione casuale e un tramonto d'inverno. 
Il resto è solo invenzione. 

domenica 25 dicembre 2011

Keep it alive.

L'alba, questo Natale, era celeste, sfumata di rosa. Fuori c'è il sole. E anche dentro, un po'.

Non so se tu leggi qui. Non lo so. La possibilità di sì, però, mi frena dal trascrivere tutte le pagine di quel quaderno che sto riempiendo, scrivendo di te, e di noi. 

E desidero che tu non fraintenda: il destinatario di questo generico "tu" con il quale converso, sei proprio tu, nessun altro. 
Forse è l'inverno. Forse è Natale. Forse è la voglia maledetta che ho di toccarti, di nuovo. 


Sono cauta. Per la prima volta, forse, sono cauta. Ho paura di perderti. Tanta. 
Ora che ci sei di nuovo, non posso non pensare a come mi mancavi. 
In realtà, mi manchi ancora. Un po', per qualche particolare. Labbra che si baciano e pelle sulla pelle. 
Forse era solo il momento ad essere sbagliato, come cantano i Dire Straits. 
O forse no. 
Non mi posso permettere un "forse no". Non con te. Non posso permettermi di perderti. 


Vorrei un primo bacio da sobria. 
Vorrei un primo bacio folle di emozioni, e non di insensatezza. 
Vorrei un nuovo primo bacio. 


Sorrido amara rileggendo quello che ho scritto. 
E' quasi banale, tanto è limpido e chiaro il mio bisogno di essere amata. 
Non ho più voglia di freddo, semplicemente. 
Non ho più voglia di essere nomade. 
Non ho più voglia di scappare. 


Vorrei la libertà necessaria per appartenere a qualcuno.


Che ne sarà di noi? Non lo so, non lo so davvero. 
-Sei un salto nel vuoto. 
Davvero, lo sono? Anche tu mi vedi così? 
Un salto nel vuoto. 
- Cosa c'è?
- Il mio istinto di sopravvivenza mi sta urlando di scappare. 
E' vero, non ti posso assicurare nulla. 
E lo sai anche tu, cazzo, mi conosci.
Mi hai vista devastata e fragile, sul fondo dell'Abisso, sai come sono, cosa sono, dietro la maschera. 

Vorrei, vorrei davvero, e tanto, poterti dire: "Fidati di me". 


Forse è ancora troppo presto, per l'amore. 


Ecco, bene, finisco sempre qui, a desiderare di arrivare perfettamente preparata alla prova con la vita.
"E' la prima volta che vivo." (L'insostenibile leggerezza dell'Essere, Kundera, letto quattro volte, due copie, una delle quali ospite fissa della mia auto.)


Viviamo impreparati. 
E per quanto le mie manie di controllo trovino questo insopportabile, penso sia l'unico modo possibile per vivere. 


Logorio mentale. Detesto questa mia leggera inclinazione a tentare di razionalizzare ogni singola emozione, pensiero, idea, sogno. 
La detesto profondamente. 


Chiudo qui, vado a farmi una doccia, scegliere i vestiti, truccarmi e prepararmi per questo Venticinque. 
Quanta voglia. 


Ok, chiudo davvero, mi è balenata per la mente la sensazione di un tuo abbraccio. 
Cerco di lasciarla così, confusa e confortante. 
Pensiero, spegniti.

Btw, buon Natale a tutti. Vi auguro, semplicemente e assolutamente, un Natale che sia davvero Natale.
Per quanto bella, la citazione da Bukowski sul Natale a luci spente e persone accese è diventata un po' troppo di dominio pubblico, quindi ve la risparmio, sicura che la conosciate già e sperando che la smettano di sbatterla dovunque, a Charlie questo inflazionismo avrebbe fatto schifo. 

Buona giornata, a tutti. 


giovedì 15 dicembre 2011

Freud non ha le risposte. Ma nessuno legge Freud per avere delle risposte. O no?


E' morto il più grave caso di anoressia nervosa al mondo. Dopo sedici anni di malattia. 
Io non riesco nemmeno ad immaginarli sedici anni da anoressica. 
Guardo la sua foto e non riesco a staccarne gli occhi. Non sembra umana. 


Pronunciare, ad alta voce, l'aggettivo "anoressica" mi costa uno sforzo enorme. 
Mi ricorda un camice, degli occhiali appesi al collo, con la montatura sottile e rossa, una cartelletta sotto il braccio. Una discussione dai toni accesi. 
La mente che si spegne per proteggersi da qualcosa che non vuole né ascoltare, né realizzare. 
Mi richiama alla mente corridoi di ospedale, pareti verde pallido, luci al neon, silenzio interrotto solo dal ronzio dei macchinari.
Piccole confezioni di cartone bianche con righe blu. Più erano piccole e più erano terribili.
Mi ricordo le notti con gli occhi sbarrati e il cuore impazzito, e la corsa infinita del cervello che cercava di afferrare il pensiero.
Mi ricordo i mesi senza sogni. Senza sognare una cosa che fosse una. 
Mi ricordo le assenze che si accumulavano, e le risposte che non erano mai esaustive o convincenti. 
Mi ricordo l'arrancare verso la fine di quell'anno, la fatica immane per fissare i concetti nella mente, l'insoddisfazione.
La gente non lo sa, cosa c'è nella mente di un'anoressica. 
La gente non sa. Per la gente sei sempre e solo una che si fa paranoie per le calorie, che non mangia una pizza intera da anni, che non zucchera il caffè.
A parte che io il caffè l'ho sempre bevuto amaro. Ma son dettagli. 
E la gente non sa nemmeno che mettere su peso non significa esser guarita. 
Guarire. Si guarisce? Ci si ammala? 
Che cazzo succede nella testa di una persona?
Perché ancora non ho trovato una risposta, ancora non so come tutto questo possa iniziare, perché possa iniziare. 
Freud non me lo spiega, i manuali di psicologia descrivono casi standard e l'ultima cosa che uno psicanalista deve fare è fornire risposte. 
Uno dei tanti meccanismi che nella vita s'inceppano, credo. 
Un ingranaggio si blocca e la tua realtà cambia. E tu diventi centomila persone diverse che si riflettono in uno specchio, che si vestono, che si fanno abbracciare. 
E non conta ciò che vedi davvero, in quello specchio. Non conta quanto sei magra, in realtà l'anoressia non è una questione di corporatura. 
C'è un momento in cui scorgi un numero, sulla bilancia. Sono cambiate le decine. E dici "Ok, adesso mi fermo". Ma non ci riesci. E ogni mattina può esserci una cifra in meno. E ti ritrovi a bucare le cinture con il coltello, a indossare due maglioni per sembrare meno inesistente. Ti guardi allo specchio e vedi un fantasma. 
L'avete mai visto, un fantasma?
Ecco, pensate vederlo ogni volta che vi guardate allo specchio. Ogni volta che incrociate lo sguardo di qualcuno che si ricorda come eravate, due mesi prima. 
Non avere più coscienza di sé. Non avere più controllo sul proprio corpo. 
Il Cigno Nero, l'avete visto? Io non ho dormito per notti, dopo averlo visto. Quella forma di follia, quella che ti divide il cervello a metà e rende ognuna delle due parti indipendente e assoluta, ma obbligata a coesistere con l'altra... quella forma di follia è l'anoressia. 
Io... vorrei poterne scrivere. Vorrei poterla descrivere. Vorrei non mi tremassero così le mani, vorrei non mi si conficcasse questa pietra in gola, vorrei non provare questa nausea e questo gelo.
Vorrei poter fermare nella mente il momento esatto in cui quel meccanismo si è bloccato. 
Fotografare quell'ingranaggio mentre si spezza. 

On air: Meds, Placebo

martedì 13 dicembre 2011

Fare dell'Abisso profondità


Arriva sempre il momento in cui le acque si placano. Il mare torna una calma distesa d'acqua blu e tu, finalmente, riesci a contemplarlo. 
C'è sempre il momento in cui sembra che il meccanismo che regola i flutti della tua mente ritorni a funzionare correttamente. Allora l'orologio si sblocca, le lancette riprendono il loro corso, il ticchettio ricompare, a scandire i pensieri. 
Come quando il cielo si schiarisce, quando una dopo l'altra ogni nuvola viene portata via, si dissolve, e lascia l'azzurro, terso e luminoso. 
Non so, in realtà, quanto ci sia di luminoso, nel mare che ora riesco a guardare. Avverto però la lucidità di pensiero, la libertà di riflettere su qualcosa senza che il dolore mi spezzi il fiato. 
Sei lì, sei il mare che guardo dalla mia barca. Non ti voglio cancellare, voglio, anzi, ricordarti, averti ben impresso nella mia testa, come tutto ciò che è stato importante nella mia vita.
Non si getta via il dolore. Non è qualcosa del quale ci si deve disfare, come un sacco della spazzatura pieno di rifiuti. 
Dal dolore, mio e altrui, ho sempre imparato molto. 
Fare dell'Abisso profondità. 
Ho scritto questa frase sorridendo, nonostante l'abbia detta a te, di fronte a un gelato affogato nel caffè, qualche mese fa.
Ecco, questo è contemplare il mare dopo una tempesta. 
Le cose ricominciano ad avere un Senso. Non c'è bisogno che io scriva qui cosa penso di te, di quello che è stato, di come mi hai trattata. Ho la consapevolezza di come e perché io ho agito, il resto è solo mare, rimane lì, io non ci posso fare nulla, analizzare ogni singolo aspetto non gli darà più significato di quello che ha.


Si parla di Capodanno. Capodanno. 
Sfoglio l'album fotografico che ho nella mente e ricordo.
Persone, musica, alcol, luci, auguri, blackout, pavimenti, bagni, sbronze inenarrabili, sogni maldestri, speranze, paure, baci famelici, labbra, lacrime, racconti di vita, neve, lenticchie... potrei continuare per pagine. Potrei scrivere di più, raccontare con maggior precisione... ma non so nemmeno io cosa voglio, posso, dire, pensare, fare, scrivere. 

In teoria tutto. In pratica no. 
Mediare fra Istinto e Ragione. Ragionevolezza, direi. 
Quest'anno è stato intenso. A dir poco. Sono cambiate talmente tante cose... io sono cambiata così tanto. Poi sono sempre la solita che si perde in un bicchier d'acqua, ma è come se, davvero, il mare attorno a me avesse orizzonti un po' più lontani, come se avessi più acqua e più onde da osservare.
Forse che sono cresciuta? Relativamente, dai, concediamoci una crescita relativa. 


Vabbé, insomma, sto pensando a te, ok, lo ammetto. 
Ci sto girando intorno dall'inizio del post, da circa cinque documenti salvati nel pc, da sei pagine di un quaderno, da giorni. 
Ragionevolezza, Agnese, fai la brava. 

mercoledì 7 dicembre 2011

Trapped

Vivere in una casa di quattro piani, dai colori diversi. 
Libri dal pavimento al soffitto. 
Stanze bianco sporco, giardini zen per ospitare un futuro equilibrio, soffitte con abbaini per guardare sempre il (al) cielo.

Stasera ne avrei proprio bisogno. 

Non ho più niente da dire. Certe sere non discuto nemmeno, esco semplicemente sul balcone a congelarmi. Le lacrime di rabbia bruciano come poche altre. 
Certe sere non ce la faccio proprio più.
Vi è così difficile, vero? Sì, evidentemente sì.

La giornata è stata così bella.

One minute you're on top, next you're not.

E domani non posso nemmeno uscire all'alba, perché la mia auto ha deciso di abbandonarmi. Fuck. 

On air: Linkin Park (cos'altro puoi ascoltare in questi casi)

sabato 3 dicembre 2011

She stole the keys to my house and then she locked herself out.


Marion Cotillard è meravigliosa.


L'ho amata in Inception. L'ho amata di nuovo guardando Midnight in Paris.
L'attore si ritrova a interpretare un determinato ruolo, oppure sceglie egli stesso che "tipo" di personaggio essere?
Riflettevo a tal proposito notando le somiglianze fra la Marion di Inception e quella di Midnight in Paris. 
Donne destinate a non essere amate nel presente, intrappolate in una dimensione onirica che, però, è l'unica in grado di mantenerle in vita. 
Amanti, dal passato, da un'epoca nella quale si vorrebbe fuggire, creature affascinanti, ma evanescenti. 
Marion...




"Baudelaire indossava guanti, per fare all'amore."
Sartre è il miglior psicanalista che potessi mai desiderare. 
Ed è terribilmente bastardo, come ogni buon psicanalista. 
Ti bevi ognuna delle sue parole, ebbra di quella comprensione assurda e astratta che spesso trovi nei libri, e poi, a metà, nel bel mezzo della tua estasi di ammirazione, ti sbatte in faccia la realtà.
Baudelaire, quel Baudelaire al quale ti sei sentita tanto affine, quel Baudelaire del quale hai guardato gli occhi ritratti, sentenziando "Come fai a non innamorarti, di uno che usa occhi così folli per guardare il mondo", quel Baudelaire che desiderava tutta la libertà necessaria per far nascere un Fiore del Male, perché era l'unico modo con il quale aveva imparato ad affermare e far rivivere, in ogni sua depravata azione, il Bene, quel Baudelaire così dilaniato, fra Satana e Dio, e che senza ombra di equilibrio li accarezzava, vi ci tuffava, sceglieva prima uno e subito dopo l'altro, quel Baudelaire torturato, vittima del bislacco e sfiancante gioco dei suoi desideri bipolari, quel Baudelaire... in realtà, faceva l'amore con i guanti.
Senza toccare davvero la sua amata. Senza fare l'amore, in fondo. 
Allora comprendi che no, non puoi essere come Baudelaire. 
Il fascino maudit è una carta che ti puoi giocare. Ma non per tutta la vita. 


Non vorrai ritrovarti a fare l'amore con i guanti. L'amore. Con i guanti. 
Non vorrai ritrovarti nella Belle Époque, e scegliere di rimanerci, perché il presente non ha senso. Perché nel presente non senti di avere senso. 
Non vorrai ritrovarti con una trottola che non si ferma mai, chiusa in una scatola. Nascosta. 
Non vorrai ritrovarti a gettare la maschera, una sera, dopo l'ennesima giornata trascorsa indossandola, e non trovare un volto. 


Mi è sfuggita una risata, in questo momento, mentre scrivevo. Non una risata, in realtà. Avete presente quella specie di "Umpf!" che si sbuffa, beffardo e ironico, più che divertito?
Ecco, mi è sfuggito uno di quelli (che forse avrà anche un nome, ma al momento faccio un po' fatica a richiamarlo alla mente... perdonate la mia povertà lessicale).
La realtà, è che io lo so benissimo, che non voglio essere Baudelaire. Né Marion e tutte le donne che interpreta. 
Lo so. 
Ma poi? 


Fortunatamente (in questo caso), sono per natura testarda. Ostinata. Recidiva. 
Quindi, nonostante ogni giorno io fallisca miseramente tutti i miei piani per diventare una persona equilibrata e serena (Dio, fa impressione persino scriverlo, "serena"), non sono affatto intenzionata a rimanere in questo stato di cose. 
Ma stasera non ho voglia di scrivere altro di ciò che mi si contorce nel cervello. 
E, sono sicura, voi non avrete voglia di leggerlo.


'Notte. 


On air: Lady of the flowers, Placebo

giovedì 1 dicembre 2011

Shining


Ho scritto pagine di dolore puro e le ho cancellate. 
Dopo questo infruttuoso (dal punto di vista scrittorio) processo catartico, posso riempire la risultante pagina bianca con quattro pensieri razionalmente espressi:


Primo. La prossima volta che qualcuno mi dirà "Quelle con un culo come il tuo arrivano sempre dove vogliono." non risponderò con un diplomatico "Sei sempre un gentiluomo", ma gli rovescerò addosso il vino e farò in modo che sia da tutti riconosciuto come un viscido verme. 
Secondo. Ti ho amato. Sì, ti ho amato. Probabilmente sono ancora innamorata di te. Inutile illudermi che farò qualcosa per smettere di esserlo.
Terzo. Reggere la maschera sta diventando problematico, faticoso e dai risvolti molto dolorosi. 
Quarto. Se la mia auto non mi ha lasciato a piedi stasera, ci sono buone probabilità che non lo farà ancora per molto.


Riconosco che la lucidità di pensiero che m'appartiene in questo momento ha un che d'inquietantemente simile a quella lucida follia che si scorge negli occhi dei killer nei film, quando escono da una stanza le cui pareti sono tutte schizzate di sangue. 
Uh, è pronto il tè. 

lunedì 28 novembre 2011

Teenage Angst. Angst.

Rabbia.
Così vivida. Potente. Netta. 
Irrompe e ti riempie il cervello.
Rabbia. 
Rabbia che t'infileresti le unghie nella pelle e te la strapperesti via. 
Rabbia che respirare non basta. Bere non basta. Urlare non basta.
Rabbia che vorresti distruggere tutto.
Rabbia che guidi come una folle pensando che adesso ti schianti e che non te ne frega un cazzo. [poi però ti accorgi che sì, i fanali dietro di te sono proprio quelli della sua auto e allora no magari non ti schianti e che stupida sei stata a pensarlo].
Rabbia che è folle, ma che mi fa sentire così viva. 


Ti giuro, con tutta la rabbia che m'infiamma le vene e mi obnubila la mente, che tu non mi dimenticherai mai. 
Te lo giuro. 


On air: The pretender - Foo Fighters.


Ho bisogno di un equilibrio. Non apparente.

domenica 27 novembre 2011

Fra la rabbia e il bene, porte sbattute in faccia e scuse.

Hai ragione, sono una stronza.
E senza nessuna sfumatura di fascino ribelle. 
Non hai alcuna colpa per il mio cattivo umore. 
E io non posso comportarmi così solamente perché sono stanca, ho buttato via la mattina dormendo -perché stanotte non riuscivo a prendere sonno-, mangerei tutto quello che c'è in casa, faccio sogni di merda che distruggono ogni mio tentativo di razionalizzazione sulla mia vita  e non so come riempirmi la giornata.
Hai fatto un passo verso di me e io ti ho sbattuto la porta in faccia.
Scusami, cazzo. Scusa. Sono la solita. 
Non ha senso riscrivere qua le scuse che ti ho chiesto. Cambiano qualcosa?
Le scuse sono una questione di orgoglio, non riparano mai davvero al danno fatto. 
Ci provo con i perché, ma è difficile quando, cercandoli, mi rendo conto di non averne di sufficientemente validi. 


La domenica è sempre una giornata di merda. 
Secondo me Leopardi intendeva esattamente questo, quando ha scritto il "Sabato del villaggio". Solo che dirlo con le mie parole avrebbe abbassato un po' troppo il registro dei suoi scritti.


Ho mal di testa. 
Ho freddo.
Ho sonno.
Ho mille cose da dirti e la voce per nessuna di esse.


Domani è lunedì. Università, lavoro, quattro lettere e un progetto. Sedici ore fuori casa, secondo i miei calcoli. [devo fare benzina] 
Mi sento sempre così inadeguata in certi ambienti... preferirei quasi non essere stata presa, la sicurezza del mediocre "Le faremo sapere, signorina, grazie." 
Eppure è tutto lì, a testimoniarmi che, forse, è il caso d'iniziare a crederci, in me stessa. 
Non so, ho l'impressione che manchi sempre un pezzo, di non centrare mai la vera questione. Di non fare mai qualcosa che cambi davvero la mia vita.
Eppure, l'hai detto tu stessa: "Basta iniziare dalle piccole cose". 


Sono un casino. 


Fra la rabbia e il bene. 
Il pensiero di dover lavorare mi conforta, elimina la possibilità di scegliere di esserci, o meno. 
Cos'avrei fatto, fossi stata libera?
Forse avrebbe vinto il mio masochismo. Non posso fare a meno di guardarvi, e so che tu senti il mio sguardo su di voi. Vi guardo e mi rendo conto che, no, non ci posso credere. Non me la dai a bere. 
Ricordo ogni tua parola. 
Stanotte ripensavo a quel pomeriggio. Quando ha iniziato a piovere. E c'era solo la penombra delle persiane chiuse. Focalizzavo il pensiero sulla sensazione che avevo provato e sentivo una lama infilarsi nel mio stomaco. 
E più la sentivo e più volevo che andasse a fondo. 
Era tutto così lontano e sfumato, in quel ricordo. E invece no, io volevo che fosse netto e concreto come una lama. Perché lo è stato. Lo è stato. 
Puoi raccontarla a te stesso, agli altri, a lei. Ma non a me. 


Più rabbia, Agnese. Più rabbia. Meno bionda angelica, più palle. 


Dio, che mal di testa. 
E ieri sera sono tornata a casa ancora sobria. 
Sono quasi le 17. Studio?


Butto lo sguardo sull'inserto della domenica del Sole che ho di fianco a me, mentre tu leggi le pagine economiche dall'altra parte del tavolo. 
"Non aver paura che la vita possa finire. Abbi invece paura che non possa mai cominciare davvero."
Touché, John Henry Newman. 
Touché. 
Eco. 

venerdì 25 novembre 2011

A me la mossa?


Se ti chiedessi sull'arte probabilmente mi citeresti tutti i libri di arte mai scritti... Michelangelo. Sai tante cose su di lui: le sue opere, le aspirazioni politiche, lui e il papa, le sue tendenze sessuali, tutto quanto vero? Ma scommetto che non sai dirmi che odore c'è nella Cappella Sistina. Non sei mai stato lì con la testa rivolta verso quel bellissimo soffitto... mai visto. Se ti chiedessi sulle donne, probabilmente mi faresti un compendio sulle tue preferenze, potrai perfino aver scopato qualche volta... ma non sai dirmi che cosa si prova a risvegliarsi accanto a una donna e sentirsi veramente felici. Sei uno tosto. E se ti chiedessi sulla guerra probabilmente mi getteresti Shakespeare in faccia eh? Ancora una volta sulla breccia cari amici?... ma non ne hai mai sfiorata una. Non hai mai tenuto in grembo la testa del tuo migliore amico vedendolo esalare l'ultimo respiro mentre con lo sguardo chiede aiuto. Se ti chiedessi sull'amore probabilmente mi diresti un sonetto. Ma guardando una donna non sei mai stato del tutto vulnerabile... non ne conosci una che ti risollevi con gli occhi, sentendo che Dio ha mandato un angelo sulla terra solo per te, per salvarti dagli abissi dell'Inferno. Non sai cosa si prova ad essere il suo angelo, avere tanto amore per lei, vicino a lei per sempre, in ogni circostanza, incluso il cancro. Non sai cosa si prova a dormire su una sedia d'ospedale per due mesi tenendole la mano, perché i dottori vedano nei tuoi occhi che il termine "orario delle visite" non si applica a te. Non sai cos'è la vera perdita, perché questa si verifica solo quando ami una cosa più di quanto ami te stesso: dubito che tu abbia mai osato amare qualcuno a tal punto. Io ti guardo, e non vedo un uomo intelligente, sicuro di sé, vedo un bulletto che si caga sotto dalla paura. Ma, sei un genio Will, chi lo nega questo. Nessuno può comprendere ciò che hai nel profondo. Ma tu hai la pretesa di sapere tutto di me perché hai visto un mio dipinto e hai fatto a pezzi la mia vita del cazzo? Sei orfano giusto? Credi che io riesca a inquadrare quanto sia stata difficile la tua vita, cosa provi, chi sei, perché ho letto Oliver Twist? Basta questo ad incasellarti? Personalmente, me ne strafrego di tutto questo, perché sai una cosa, non c'è niente che possa imparare da te che non legga in qualche libro del cazzo. A meno che tu non voglia parlare di te. Di chi sei. Allora la cosa mi affascina. Ci sto. Ma tu non vuoi farlo, vero campione? Sei terrorizzato da quello che diresti. A te la mossa, capo.


Will Hunting - Genio ribelle




Troppi pensieri in testa. 


Will Hunting.
Leila. 
Mail.
Cieli pieni zeppi di stelle.
Torte di mele.
Alone at home.
Colloqui di lavoro.


Vaffanculo non detti, ma che ho una gran voglia di dire. 


Inquietudine da equilibrio precario.
Sogni non proprio belli. 
Paura VS voglia di vivere.


Inaspettato, grazie. 
Mi salvi sempre. 


No, davvero, stasera non riesco a scrivere un post. 
Giornata lunatica, ma sono viva. 
Non voglio chiedermi in che senso, non voglio chiedermi nulla. 


On Air: Song 2, Blur.


Ho perso il conto delle ore di sonno arretrate. 
Ma fa niente. 


E ho una decina di post più sensati da pubblicare, ma... ma no. 




Inaspettato, grazie. 
Inaspettati, grazie. 


Vado a dormire forse. 

martedì 22 novembre 2011

Specchio

Non è che abbia chissà quanto da scrivere.
E allora lascia perdere, no?
Uhm. 
Uhm?
Scusa, la detective rossa di The Mentalist mi ha distratta.
E non inarcare il sopracciglio, così, persona orribile.
Ah-ah. 
E adesso, cosa sarebbe questo ah-ah di soddisfazione e presa per il culo?
No, niente...
Sì, lo so. Devo ammettere che mi ha fatto piacere? Mi ha fatto piacere, ok?
Mh-mmmh. 
Cos'è, adesso me stessa si mette a fare l'analista che non dice mai un cazzo e non fa una domanda diretta che sia una?
Di solito ti diverti, quando sei tu a farlo con gli altri. 
Appunto, con gli altri. Con me stessa non è divertente, so dove vuole arrivare, e dove posso arrivare io. 
...
Ma secondo te Jane e Lisbon combineranno mai qualcosa?
Perché questa domanda?
Così, pensavo. Si rincorrono. 
Aaah.
Oh, vaffanculo. 
Ahahahah. 
...
Allora, come stai, me lo dici?
Non lo so. 
Oggi è stato strano. Come quando vedi una cosa bella e hai paura di guardarla troppo, perché potrebbe scomparire. Sono... sulla difensiva.
Perché sbuffi?
Pensavo: "Che novità".
Già. 
...
Non scappare. 
Ci sto provando.
Non.scappare.
Ho paura. 
Lo so. 
...
Com'era filosofia oggi?
Uhm... mi piacevano di più le lezioni distruttive sulla linea esistenzialista. Aristotele... strutturalista del cazzo. 
E non ridere. 
Rido, ma condivido. E del rosso, che mi dici?
Eh, che ti dico...
E il biondino?
Mi sa che dopo il giro in Feltrinelli l'ho un po' smontato...
E il bello e dannato?
Più stronzo e narcisista che bello e dannato, mi sa. 
Un tempo ti sarebbe piaciuto.
Sì, lo so. Ma sono stanca di personaggi. 
...
Mi regali una pistola? Non ho mai sparato, con una vera.
Sì, scena figa, il "O ti uccido senza pietà" fa sempre il suo effetto. Ma... biasimi i personaggi altrui e continui a costruirti maschere?
Ammetterai anche tu che è molto più semplice, ricoprire un volto, piuttosto che disegnarlo, quel volto. 
...
Perché adesso non la spoglia, cazzo?
Perché qualcuno preferisce costruire una storia, piuttosto che tuffarcisi a peso morto. 
Io non mi ci tuffo a peso morto, nelle relazioni.
No, hai ragione, tu ti sbronzi e poi fai-
Taci.
Sì, ho già parlato abbastanza, ormai ci stai pensando.
Fanculo. Quelle non sono relazioni. Quelle non sono state relazioni.  
Tranne una, sbaglio?
Per favore, cerco di non pensare a quanto sono stata schifosamente brava a mandare tutto a puttane, quella volta. 
...
Continui a pensarci, vero?
Una mia risposta sarebbe superflua. 
La vedi, la parabola? 
Iperbole. Anzi, eterno ritorno, che ne dici?
Aaah, bella quella teoria. 
Eterno. Davvero?
Non so, secondo te?
No. Non può essere. Dev'esserci la chiave di volta, da qualche parte.
...
Cazzo. Ho capito il finale.
Dici che è così banale?
Spero mi sorprenda. Spero di sbagliarmi.
...
Secondo te cosa ho provato, oggi?
Lo sai meglio di me che al proprio analista non si pongono mai domande. 
Te lo chiedo proprio perché non voglio una risposta, forse.
Posso citare una mia collega, in questo caso?
Ti risponderei a mia volta con una citazione, ma me lo risparmio. Prego.
"Mi stupisce la freddezza con la quale mi racconta tutto questo."
Ahah, è venuta in mente anche me, oggi, appena salita in macchina. Il problema è questo, infatti: ho provato quello che non ho provato perché davvero non c'è più nulla o perché mi sono congelata, ibernata, rinchiusa nella mia gelida razionalità... come al solito?
E quel nulla che dovrebbe esserci, o non esserci? E' un nulla auto-imposto o naturale?
Ti prego, non partiamo con le solite domande che si susseguono una dopo l'altra, andando sempre più a fondo...
Cos'è, sei stanca?
Sì, sono stanca. 
...
Comunque, non lo so, cosa hai provato. Né stasera, né oggi, né stamattina. Non lo so.
Sai che non sto facendo sogni?
Eccome, se lo so.
Possibile che tu non mi dica nulla di nuovo e inaspettato, me stessa?
...
Ha bluffato! 
E allora?
No, niente, pensavo. 
Coppia di assi?
Oddio, me lo devi proprio ricordare? 
Certo che sì, lo so che è quel genere di figura di merda che ti fa sentire tanto, tanto, bene. 
In realtà pensavo a un altro bluff. Ma ora mi è tornata in mente un'altra partita a poker, di molti, molti anni fa.  Dio santissimo. 
Imbarazzo?
Sì, sono spesso imbarazzata da me stessa. 
Ehi, non tirarmi in mezzo.
No, non tu. Non questa volta. 
Ma, scusa, chi hai aggiunto alla conversazione?
Da quando hai sviluppato questo nerd-side?
...
Canzone?
Quella.
Oh, che monotonia. 
Eh, lo so. Se vuoi posso concederti una variatio con Adele. 
Avverti il mio entusiasmo?
Cosa posso dire, mi spiace che ti sia capitata io.
I vittimismi mi stanno sul culo.
Anche a me. Avevo voglia di starmi sul culo.
...
Secondo me possiamo smetterla qui.
Sì, anche secondo me.
Ma dai?
Sono te stessa, ogni tanto dobbiamo concordare, no?
Ogni tanto...
...
Sigaretta?
Sigaretta.
Ipod?
Ipod.
Adele?
No, l'altra.
Aaaah.
Ci sta sempre. Sempre. 
Wow, hai citato lui, questa volta.
Agosto... 2009, mi sa. 
Ah, grande estate. 
No comment. 

domenica 20 novembre 2011

Tracciare traiettorie migliori nei vuoti d'aria della Realtà


Io esco di casa.
Pensarlo e farlo. 
Accendere la macchina. Musica. 
Potersene andare così, senza chiedere a nessuno. Indipendenza. 
Per questo amo guidare. Perché posso andarmene, perché bastano due minuti e sono lontano da tutto. 
Sole. Aria fresca dal finestrino abbassato.
Musica. Musica. Musica. 
Sensazione di libertà. 
Mi piace guidare così, velocità non per incosciente ricerca di adrenalina, ma per libertà, cosciente e consapevole.
Quando fuggire è andarsene, scegliere di andarsene. 

Assaggiare la libertà ti fa tornare la voglia di provarci. 

On air: Liberi tutti, Subsonica.

Sunday bloody Sunday


Non ne ho voglia. 
Non ho voglia di tutta questa felicità sfacciata e inconsistente da "Questa volta è diverso, abbiamo sistemato le cose, andrà bene".
Non ho voglia di sentire lui fare le valigie alla cazzo all'una di notte, per tornarsene a Milano. 
Non ho voglia nemmeno di farvi credere che sia contenta. Siamo alla terza volta, o sbaglio? In un anno. Scusate se non stappo lo champagne e se non mi entusiasmo per i vostri programmi di vacanze natalizie tutti insieme... Vostri programmi, vostri. 
Non ho voglia di te che ti senti in competizione con me. Ho la metà dei tuoi anni, cazzo, e non me ne frega proprio una mazza di prendere il tuo posto. 
Non ho voglia di compilare la lista della spesa e segnare gli ennesimi biscotti. Non ho voglia di dispense riempite e riempite senza che nessuno si chieda mai come cazzo facciano a sparire i pacchi di biscotti.
Non ho voglia di tu che ti svegli e accendi la tv, al tuo volume assurdo, la mattina. Odio profondo.
Non ho voglia che mi si dica "Basta che non lasci tracce, come al solito.". 
Non ho voglia di guardarmi allo specchio e pensare se sono ingrassata o meno, provare disgusto e sentirmi uno schifo perché non ci sono più spigoli. Non ho voglia di cercare le ossa con le mani la mattina quando mi sveglio o la sera quando mi sto per addormentare. 
Non ho voglia di arrivare al lunedì più stanca di come sono arrivata al venerdì. 
Non ho voglia di bruciare benzina solo per stare in giro. 
Non ho voglia di cucinare cose delle quali conosco già la fine. 


Che due coglioni. 


Ieri ci ho provato. A stare bene, intendo. Ci ho provato davvero. 


Stare con te così, con quella naturalezza. 
Mi mancavi. Tanto. Davvero. 
Al di là di tutte le complicazioni del nostro rapporto. Di tutti i modi con i quali mi sono impegnata a rovinare tutto. 
Non ho voglia di piantare i paletti di un recinto in cui pascolare. Posso stare con un amico, senza pensare ai "ma" e ai "perché"?
Avrei voluto ringraziarti per avermi cercata, giovedì. Poi mi è sembrato stupido e ho preferito dire cose molto più stupide, così, per non correre il rischio di togliere un po' della nebbia che mi aleggia attorno.
Sono stata bene, e spero che lo stesso sia valso per te. 


Lavorare a Maaf mi lascia sempre la sensazione bellissima di star costruendo qualcosa. 
Non so quale strano meccanismo psico-distruttivo si fosse attivato nella mia mente quando ho pensato che avrei potuto rischiare di perdere tutto questo, compresa Arabica. 
Avevo davvero perso il contatto con la Realtà. 


Ieri non trovare il mio nome fra quelle pagine è stata una pugnalata. Non so cosa mi aspettassi, è naturale che le cose stiano a questo punto, ora. 
Però... ha fatto freddo. E non perché non ci fosse qualcosa scritto da me.
Avere la sensazione di non c'entrare più. 
Addio.
Lasciaci in pace.
Non dovevo fare quello che ho fatto, lo so. 
Ma io voglio c'entrare ancora. 
Perché ci tengo. 


[e mi fa terribilmente incazzare questa mia incapacità di trasmettere i sentimenti, come se non riuscissi mai ad allungare la mano e toccare davvero le cose, eppure, sono lì, basterebbe distendere un braccio... che frustrazione.] 


Quando arriva il pacco di Arabiche appena stampate è sempre meraviglia e orgoglio, orgoglio perché so dare un volto a quei nomi, una voce a quelle parole, un gesto a quelle immagini. 
Vorrei c'entrare ancora e di più, con tutto questo. 


Chiedo troppo?


Oggi ci riprovo?
C'è meno sole di ieri, e non so perché. 
Domani Milano, respiro già un po' meglio solo all'idea. 


Apro la finestra e faccio entrare un po' d'aria. 
Mi piace, entrare in camera e sentire quei cinque gradi in meno, e quell'aria fresca che sa di aria, nient'altro che aria. 
Se riuscissi anche a ricordarmi dove ho lasciato il quaderno con gli appunti...





I believe in the sun
though it is late in rising.


I believe in love
though it is absent.


I believe in God
though He is silent.


[Anonymous holocaust survivor - Cologne, Germany]

venerdì 18 novembre 2011

Di cicatrici e Bukowski


Sistemavo la mia libreria e sfogliavo i libri letti, ripercorrendo sottolineature e appunti. Sorridendo dei miei commenti, scritti con ironia, tristezza, rabbia o fredda presa di coscienza sulla realtà a lato delle pagine.
Mi è capitato fra le mani "Storie di ordinaria follia", di Charles Bukowski. 
Ho pensato: "Toh, parlavo di te proprio qualche giorno fa."
Sapevo che racconto andare a rileggere. L'unico che ho davvero amato, di Charles. Lo copio qui. Lo so, è un po' lungo, più lungo di un post. Però... leggetelo. Poi mi saprete dire. Poi vi saprete dire. 


La più bella donna della città


Cass era la più giovane e la più bella di cinque sorelle. Cass era la più bella ragazza di tutta la città. Mezzindiana, aveva un corpo stranamente flessuoso, focoso era e come di serpente, con due occhi che proprio ci dicevano. Cass era fuoco fluido in movimento. Era come uno spirito incastrato in una forma che però non riusciva a contenerlo. I capelli neri e lunghi, i capelli di seta, si muovevano ondeggiando e vorticando come il corpo volteggiava. Lo spirito, o alle stelle o giù ai calcagni. Non c'era via di mezzo, per Cass. C'era anche chi diceva che era pazza. Gli imbecilli lo dicevano. Gli scemi non potevano capirla. Agli uomini in genere Cass pareva una macchina da fottere, e quindi non gliene fregava niente, fosse o non fosse pazza. E Cass ballava e civettava, si lasciava baciare dagli uomini, ma, tranne qualche rara volta, quando si stava per venire al dunque, com'è come non è, Cass si eclissava, Cass aveva eluso gli uomini. Le sorelle l'accusavano di sprecare la sua bellezza, di non fare buon uso del cervello. Ma Cass ne aveva da vendere, di cervello e di spirito. Dipingeva, danzava, cantava, modellava la creta, e quando qualcuno era ferito, mortificato, nel corpo o nell'anima, Cass provava compassione per costui. Il suo cervello era, ecco, differente; la sua mentalità non era pratica, ecco quanto. Le sorelle eran gelose perché attraeva i loro uomini; ce l'avevano su con Cass perché, secondo loro, sciupava un sacco d'occasioni. Di solito Cass era gentile con quelli più brutti; i cosìddetti fusti non le dicevano niente. Le facevano schifo. "Senza nerbo" diceva, "senza grinta. Arrivano, alti in sella, con quei nasi ben fatti, quelle orecchie ben disegnate... Tutta esteriorità, e niente dentro." 
La sua indole era affine alla pazzia; aveva un temperamento che certi chiamavano pazzia. Il padre era morto alcolizzato, la madre era scappata via di casa, abbandonando le figlie. Le ragazze si rivolsero a certi loro parenti, che le misero in convento. Il convento era un posto molto triste, più per Cass che per le sorelle. Le altre ragazze erano gelose di Cass e a Cass toccava litigare sempre. Aveva segni di rasoiate sul braccio sinistro, in conseguenza d'un paio di quelle baruffe. Poi aveva una cicatrice permanente sulla guancia sinistra, ma lo sfregio anziché diminuirla sembrava accrescere la sua bellezza. 
Io la incontrai al West End Bar poco dopo ch'era venuta via dal convento. Essendo la più giovane delle sorelle era venuta via per ultima. Quella sera entrò là e, semplicemente, si venne a sedere vicino a me. Io ero forse l'uomo più brutto della città, e magari questo avrà influito in qualche modo. "Bevi?" le domandai. "Ma sicuro, come no?" 
Non ci dicemmo niente di straordinario, mi sa, quella sera; ma contava l'impressione che lei dava. Cass aveva scelto me e questo era quanto. Nessuna forzatura. Bere le piaceva e così fece molti bis. Non credo fosse ancora maggiorenne, però lì la servivano lo stesso. Magari aveva una carta d'identità falsa, chi lo sa. Comunque, ogni volta che tornava dalla toilette e veniva lì a sedersi accanto a me, io provavo un certo orgoglio. Non era solo la più bella ragazza della città, era anche una delle più belle donne che avessi mai visto. Le passai un braccio intorno alla vita e la baciai, una volta. 
"Mi trovi carina?" mi domandò. 
"Sì, certo, però poi c'è qualcos'altro... oltre a come ti presenti..." 
"Tutti quanti mi accusano di essere carina. Sul serio mi trovi carina?" 
"Non è il termine adatto, 'carina', non ti rende giustizia." 
Cass frugò nella borsetta. Pensavo che cercasse un fazzoletto. Tirò fuori uno spillone. Prima che potessi fermarla se l'infilò nel naso, da parte a parte, proprio sopra le narici. Provai disgusto e orrore. Mi guardò e scoppiò a ridere. "Mi trovi carina adesso? Cosa pensi adesso, amico?" 
Tirai via lo spillone e tamponai il sangue con un fazzoletto. Diverse persone, tra cui il proprietario, avevano visto quel numero. 
Il padrone del bar venne oltre. "Senti," disse a Cass, "provaci un'altra volta, e fili fuori. Non ci vanno, certi pezzi d'arte varia." 
"Al, vaffanculo, amico!" disse lei. 
"Vedi di tenerla a bada," disse a me il proprietario. 
"Sta' tranquillo," dissi io. 
"Il naso è mio," disse Cass, "e ci faccio quel che mi pare." 
"No," dissi, "fai male a me." 
"Vuoi dire che ti fa male, quando m'infilzo uno spillo nel naso?" 
"Sì. E' così." 
"Va bene. Non lo farò più. Sta' su bello." Mi baciò, con una specie di ghignetto misto al bacio, e premendosi il fazzoletto sulla ferita. Quando chiusero il locale ce ne andammo su da me. Avevo una birra e ci sedemmo a chiacchierare. Fu allora che avvertii quanto fosse gentile, percepii la bontà che era in lei. Si tradiva a sua insaputa. Poi però si ritraeva, ritornava selvatica, d'un balzo, piena di incongruità. Balzana. Schizoide. Una bellissima schizoide spirituale. Forse qualcuno, qualcosa, poi l'avrebbe rovinata per sempre. Io speravo che non toccasse a me. 
Andammo a letto e, dopo ch'ebbi spento la luce, Cass mi disse. "Ti va bene adesso? O domattina?" "Domattina." E mi voltai dall'altra parte. La mattina dopo mi alzai e andai a fare il caffé e gliene portai una tazza a letto. Si mise a ridere. "Sei il primo tu, che non ha avuto fretta." 
"Non c'è mica bisogno," le dissi, "di farlo per forza." 
"No, aspetta. Adesso ho voglia. Mi vado a dare una rinfrescata." Andò in bagno. Ne tornò poco dopo. Era stupenda, con i lunghi capelli neri lucenti, gli occhi e le labbra lucenti, tutta lucente... Mise in mostra il suo corpo con calma, come una cosa buona. Si infilò fra le lenzuola. "Vieni qua, amante mio." L'abbracciai. Mi baciò con abbandono, senza furia. L'accarezzai per tutto il corpo, fra i capelli. La montai. Era calda, e stretta. Cominciai a pompare piano piano, ché durasse. Mi guardava dritto negli occhi. "Come ti chiami?" le chiesi. "Ma che differenza fa?" mi chiese lei. Mi misi a ridere e continuai. Poi dopo si rivestì e la riaccompagnai in macchina al bar, ma non riuscivo a levarmela dalla testa. 
Non avevo un lavoro, così dormii fino alle due del pomeriggio, poi mi alzai e lessi il giornale. Ero nella vasca da bagno quando lei arrivò, con una grossa foglia: un orecchio d'elefante. "Lo sapevo che eri nella vasca," mi disse, "e così t'ho portato qualcosa per coprirti l'affare, naturista." Mi lanciò l'orecchio d'elefante dentro la vasca. 
"Come lo sapevi che m'avresti trovato nel bagno?" 
"Lo sapevo." 
Quasi ogni giorno Cass arrivava mentre ero dentro la vasca. A ore diverse, ma non si sbagliava quasi mai. E portava una foglia d'elefante. E poi facevamo l'amore. 
Un paio di volte, dietro sua telefonata, mi toccò andare a tirarla fuori, pagando la cauzione, ché l'avevano messa al fresco per ubriachezza e risse. "Questi figli di puttana," diceva, "solo perché ti pagano da bere, si credono in diritto alla patacca." 
"Ogni volta che accetti da bere, vai incontro a guai." 
"Ma io penso che gli interessi io, mica il mio corpo." 
"A me interessi te e anche il tuo corpo. Dubito però che gli altri uomini, perlopiù, vadano oltre il tuo corpo." 


Stetti fuori città per un sei mesi, girai di qua e di là, poi ritornai. Non m'ero scordato di Cass, ma c'era stato non so che bisticcio, e poi io avevo voglia di andare un po' in giro comunque, e quando tornai m'immaginavo che lei fosse andata via, invece ero al West End Bar da neanche una trentina di minuti quando entrò lei e venne a sedere vicino a me. 
"Eccoti qua, bastardo, sei tornato." 
Le offrii da bere. Poi la guardai. Portava un vestito con il colletto alto. Non le avevo mai visto una cosa così indosso. E sotto ciascun occhio ci aveva, conficcate, due spille con le capocchie di vetro. Si vedevano solo le capocchie, ma le spille erano dentro nella carne del viso. 
"Mannaggia a te, vuoi proprio deturparti, eh?" 
"Macché, è la moda, cretino!" 
"Tu sei matta." 
"Mi sei mancato," disse. 
"Hai qualcun altro?" 
"No, non c'è nessun altro. Solo te. Ma però batto. La metto dieci dollari. A te, te la do gratis." 
"Tirati via quei spilli." 
"No, è gran moda." 
"Mi fan male a me, da matti." 
"Dici sul serio?" 
"Perdio sul serio, sì." 
Pian piano Cass estrasse le due spille, le mise nella borsa. 
"Perché sfotti così la tua bellezza?" le chiesi. "Perché non ci vivi insieme, e via?" 
"Perché la gente pensa ch'è tutto quel che ho. La bellezza non è niente, la bellezza non dura. Non lo sai quanto sei fortunato, tu, a essere brutto, ché se a qualcuno gli piaci, così sai che è per qualche cosa d'altro." "E va bene," dissi, "sono fortunato." 
"Mica dico che sei brutto. Ti trovano brutto gli altri, ma hai una faccia affascinante." 
"Grazie." 
Bevemmo ancora. 
"Cos'è che fai?" domandò lei. 
"Niente. Non mi va di fare niente. Non m'importa." 
"Di niente, neanche a me. Se eri una donna, potevi battere." 
"Non credo che m'andrebbe, alla lunga, di fare intimità con tanti estranei. E'una roba che stanca." 
"Altroché se stanca. Tutto stanca, e consuma." 
Uscimmo insieme. La gente per strada si voltava ancora a guardare Cass. Era ancora una donna molto bella. Forse più bella che mai. Andammo su da me e io stappai una bottiglia di vino e ci mettemmo a parlare. Fra Cass e me era facile, parlare. Parlava lei un po' e io stavo a sentire poi parlavo io. Il colloquio andava avanti senza sforzo. Pareva che scoprissimo tanti segreti comuni a tanti. Quando ne scoprivamo uno grosso Cass scoppiava a ridere -quella sua risata- solo lei era buona. Era come gioia sprizzata dal fuoco. Sempre parlando ci abbracciavamo, ci baciavamo. Così andammo su di giri e ci venne voglia di andare a letto. Allora Cass si tolse quel vestito con il colletto alto e io la vidi: la brutta cicatrice frastagliata, attraverso la gola. Era larga e spessa. "Mannaggia a te, donna," le dissi dal letto, "mannaggia a te, che cosa ti sei fatta?" "Ci ho provato con un coccio di bottiglia una sera. Non ti piaccio più? Sono ancora bella?" 
La tirai giù dal letto e la baciai. Lei si sciolse e rise. "Certi sganciano la grana anticipata e poi, quando mi spoglio, non gli va più di farmisi. Io mi tengo il deca. E'una cosa buffissima." 
"Sì," dissi, "da morir dal ridere... Cass, sciagurata, io ti amo... smettila di distruggere te stessa: sei la donna più viva che abbia mai conosciuto." 
Ci baciammo ancora. Cass piangeva in silenzio. Sentivo sulla pelle le sue lacrime. I lunghi capelli neri erano sparsi intorno a me come un vessillo di morte. Ci congiungemmo e, piano, con dolcezza, con mestizia, facemmo l'amore, meravigliosamente. La mattina dopo Cass si alzò e preparò la colazione. Era calma e pareva felice. Cantava. Io restai a letto a godermi la sua felicità.Alla fine venne oltre e mi scosse. "Su bastardo! Datti una lavata alla faccia e all'uccello e poi vieni a far la pappa." 
La portai alla spiaggia quel giorno. Era giorno feriale e non ancora estate, quindi era magnifico, così deserto. Dei vagabondi straccioni dormivano fra l'erba, dove finiva la rena. Altri sedevano sulle panchine di pietra e si passavano una bottiglia. Dei gabbiani volteggiavano intorno, tranquilli eppure come sconcertati. Vecchie signore sui 70-80 sedevano sulle panchine a trattare la compravendita di immobili lasciati da mariti morti ammazzati tanto tempo fa dal ritmo della vita, dalla stupidità, dalla lotta per la sopravvivenza. Con tutto questo, c'era una gran pace nell'aria e noi passeggiammo e poi ci stendemmo sull'erba, senza quasi mai parlare. Era bello stare insieme e bastava. Comprai un paio di panini, patatine, e da bere, e mangiammo in riva al mare. Poi dormimmo abbracciati per un'oretta. Era in un certo modo anche meglio che far l'amore. C'era questo fluire via insieme senza nessuna tensione. Quando ci svegliammo, tornammo a casa mia e preparai la cena. 
Dopo cena proposi a Cass di restare lì da me e di metterci insieme. Stette un pezzo a guardarmi, prima di rispondere, poi disse piano: "No". 
La riportai al bar, le offrii da bere e me ne andai. Trovai un posto da facchino, l'indomani, in una fabbrica, e per tutta la settimana andai al lavoro. Alla sera ero troppo stanco per andare in giro, ma appena fu venerdì andai al West End Bar. Mi sedetti e aspettavo Cass. Passavano le ore. Dopo che ero bell'e sbronzo, il padrone vien oltre e mi fa: "Mi dispiace per quella amica tua." 
"Di che cosa?" domandai. 
"Mi dispiace. Non lo sapevi?" 
"No." 
"Suicidio. L'hanno seppellita ieri." 
"Seppellita?" domandai. Mi pareva che da un momento all'altro lei dovesse entrare da quella porta... Come poteva essere sottoterra? 
"Le sorelle le hanno fatto il funerale." 
"Suicidata? Me lo sai dire come?" 
"S'è tagliata la gola." 
"Ho capito. Dammi da bere, un altro." 
Bevvi fino all'ora di chiusura. Cass era la più bella delle cinque sorelle, la più bella della città. Non so come ce la feci a tornare a casa in macchina, e badavo a pensare: avrei dovuto insistere, che restasse con me, non arrendermi al suo "no". Tutto lasciava intendere che, a me, voleva bene. Gliene importava. Ma io m'ero comportato troppo alla stracca, sì, come se l'avessi presa sottogamba. 
Meritavo la morte, la mia morte e la sua. Ero un cane. No, perché dar la colpa ai cani? M'alzai e trovai una bottiglia di vino, mi ci attaccai a garganella. 
Cass la più bella ragazza della città era morta a vent'anni. 
Fuori qualcuno si mise a suonare il clacson. Un rumore arrogante, insistente, furioso. Posai giù la bottiglia e gridai: "Ma la smetti, brutto figlio di puttana? La vuoi smettere?" 
La notte seguitava ad andare avanti, non c'era niente che potessi fare.


La prima volta che l'ho letto ero in macchina, c'era la luce di un lampione. Era estate, inizio estate, mi pare giugno. Non so chi, o cosa, stessi aspettando, da sola in macchina con un libro fra le mani... probabilmente avevo solo voglia di notte. 
L'ho letto e... mi ricordo la foga con cui ho cercato una matita, nella borsa, per sottolineare quel passo. 
A volte vorrei potermi cucire addosso la bellezza di ciò che leggo. Vorrei cucirmela addosso, quella bellezza, ago, filo e parole.
La seconda volta l'ho letto a una persona, qualche settimana dopo. Davanti a una pizza da dividere, arrampicati sugli sgabelli di una pizzeria d'asporto. Fuori pioveva, era luglio. Bukowski in pausa pranzo.  


Cicatrici... 


Una sera, tempo fa, mi trovavo in un bar. Di fianco a me, al bancone, c'era un ragazzo. Beveva una coca, se non erro. Dal polsino della camicia sbucava una cicatrice meravigliosa, viola. 
Non riuscivo a smettere di guardarla. E, a un certo punto, ho chiesto al ragazzo: -Cosa ti è successo, lì?
Una caduta dalla bici che era terminata in una finestra infranta, vetri dovunque, cinquantasette punti. 
Mi ricordo che aveva riso, ad un tratto. 
-Perché ridi? Scusa, sono stata indiscreta...
-Ahah, no, non ti preoccupare... è che... nessuno me l'aveva mai chiesto. 
Mattia. 
Bel nome. Bella cicatrice. 


Forse la prima, o la seconda, o la quindicesima, persona di cui mi sono innamorata aveva sull'avambraccio braccio sinistro, poco prima dell'incavo del gomito, un nome. Tre lettere. Bianche, sottili, dolorosamente aggraziate. 
Il nome della persona che amava. Ho odiato e adorato quella cicatrice: non sarei mai stata all'altezza di un amore così indelebile, ma non potevo non riconoscere che quello fosse il tatuaggio più romantico che avessi mai visto. 


E ricordo la sensazione che mi dava, accarezzare le ultime cicatrici che ho amato. M'incantavo, ad accarezzarle. Le percorrevo con le dita e mi lasciavo ipnotizzare dalla differenza che facevano, al tatto, la pelle e le cicatrici. Volevo ubriacarmi del dolore che percepivo, che mi colpiva, violento, sfacciato, nell'osservare quei segni. E m'illudevo che ogni bacio potesse creare qualcosa di più potente e importante del dolore e della sofferenza. 
Ricordi.




Ho ragnatele di cicatrici che vedo solo io, ormai. Sono solo sottili ricami ton sur ton, nella pelle, appena identificabili, ma che io potrei ridisegnare senza difficoltà.
Sulla mano destra ho tre piccole cicatrici. Scottatura, scottatura, ago. 
Quando mi abbronzo mi spunta una cicatrice sul fianco sinistro. Una virgola bianca sulla pelle. Malattia.


Sono terrorizzata dall'idea che la vita non lasci un segno indelebile, vorrei aver scritto in faccia quello che ho vissuto. Amo le cicatrici perché rimangono. Non se ne vanno. Lasciano il segno, e tu non le puoi cancellare. Le puoi coprire, camuffare, ma non le elimini. 
Rimangono. E io... io ho sempre un po' paura che tutto se ne vada, scivoli via. Mi rendo conto che è assurdo, vivere nel terrore di perdere ciò che si ha... non è vita. Soprattutto perché, poi, ti ritrovi a fare cose strano, tipo fuggire sempre, essere la prima a lasciare per non essere lasciata, evitare i legami, ingurgitare tutto e subito per paura che poi scompaia... sì, è assurdo. Ma la vita mi ha insegnato questo, fino ad ora. Mi ha insegnato che devi crescere da sola, perché non puoi sempre contare sugli altri, mi ha insegnato che le persone se ne vanno, e tu non puoi farci un cazzo di niente, mi ha insegnato che i matrimoni durano un giorno, il resto degli anni sono convenzioni e tradimenti nascosti, mi ha insegnato che la felicità dura un attimo, che l'unico modo per non essere uccisa è ucciderti da sola, per prima.


Mi ha insegnato che ci sono solo ferite superficiali, che bruciano da morire ma che poi non lasciano alcun segno. 
Per questo amo le cicatrici. Perché non se ne vanno. Vorrei solo cicatrici. 
Il problema è che, come per tutto il resto, come per Cass, la maggior parte delle persone, quando vede l'orribile squarcio che ti sfregia, preferisce che tu ti rivesta. No, grazie, per me solo ferite superficiali.


Io ho bisogno di qualcosa che rimanga. Di qualcosa che lasci una cicatrice nella mia vita, non solo su di me.