lunedì 28 novembre 2011

Teenage Angst. Angst.

Rabbia.
Così vivida. Potente. Netta. 
Irrompe e ti riempie il cervello.
Rabbia. 
Rabbia che t'infileresti le unghie nella pelle e te la strapperesti via. 
Rabbia che respirare non basta. Bere non basta. Urlare non basta.
Rabbia che vorresti distruggere tutto.
Rabbia che guidi come una folle pensando che adesso ti schianti e che non te ne frega un cazzo. [poi però ti accorgi che sì, i fanali dietro di te sono proprio quelli della sua auto e allora no magari non ti schianti e che stupida sei stata a pensarlo].
Rabbia che è folle, ma che mi fa sentire così viva. 


Ti giuro, con tutta la rabbia che m'infiamma le vene e mi obnubila la mente, che tu non mi dimenticherai mai. 
Te lo giuro. 


On air: The pretender - Foo Fighters.


Ho bisogno di un equilibrio. Non apparente.

domenica 27 novembre 2011

Fra la rabbia e il bene, porte sbattute in faccia e scuse.

Hai ragione, sono una stronza.
E senza nessuna sfumatura di fascino ribelle. 
Non hai alcuna colpa per il mio cattivo umore. 
E io non posso comportarmi così solamente perché sono stanca, ho buttato via la mattina dormendo -perché stanotte non riuscivo a prendere sonno-, mangerei tutto quello che c'è in casa, faccio sogni di merda che distruggono ogni mio tentativo di razionalizzazione sulla mia vita  e non so come riempirmi la giornata.
Hai fatto un passo verso di me e io ti ho sbattuto la porta in faccia.
Scusami, cazzo. Scusa. Sono la solita. 
Non ha senso riscrivere qua le scuse che ti ho chiesto. Cambiano qualcosa?
Le scuse sono una questione di orgoglio, non riparano mai davvero al danno fatto. 
Ci provo con i perché, ma è difficile quando, cercandoli, mi rendo conto di non averne di sufficientemente validi. 


La domenica è sempre una giornata di merda. 
Secondo me Leopardi intendeva esattamente questo, quando ha scritto il "Sabato del villaggio". Solo che dirlo con le mie parole avrebbe abbassato un po' troppo il registro dei suoi scritti.


Ho mal di testa. 
Ho freddo.
Ho sonno.
Ho mille cose da dirti e la voce per nessuna di esse.


Domani è lunedì. Università, lavoro, quattro lettere e un progetto. Sedici ore fuori casa, secondo i miei calcoli. [devo fare benzina] 
Mi sento sempre così inadeguata in certi ambienti... preferirei quasi non essere stata presa, la sicurezza del mediocre "Le faremo sapere, signorina, grazie." 
Eppure è tutto lì, a testimoniarmi che, forse, è il caso d'iniziare a crederci, in me stessa. 
Non so, ho l'impressione che manchi sempre un pezzo, di non centrare mai la vera questione. Di non fare mai qualcosa che cambi davvero la mia vita.
Eppure, l'hai detto tu stessa: "Basta iniziare dalle piccole cose". 


Sono un casino. 


Fra la rabbia e il bene. 
Il pensiero di dover lavorare mi conforta, elimina la possibilità di scegliere di esserci, o meno. 
Cos'avrei fatto, fossi stata libera?
Forse avrebbe vinto il mio masochismo. Non posso fare a meno di guardarvi, e so che tu senti il mio sguardo su di voi. Vi guardo e mi rendo conto che, no, non ci posso credere. Non me la dai a bere. 
Ricordo ogni tua parola. 
Stanotte ripensavo a quel pomeriggio. Quando ha iniziato a piovere. E c'era solo la penombra delle persiane chiuse. Focalizzavo il pensiero sulla sensazione che avevo provato e sentivo una lama infilarsi nel mio stomaco. 
E più la sentivo e più volevo che andasse a fondo. 
Era tutto così lontano e sfumato, in quel ricordo. E invece no, io volevo che fosse netto e concreto come una lama. Perché lo è stato. Lo è stato. 
Puoi raccontarla a te stesso, agli altri, a lei. Ma non a me. 


Più rabbia, Agnese. Più rabbia. Meno bionda angelica, più palle. 


Dio, che mal di testa. 
E ieri sera sono tornata a casa ancora sobria. 
Sono quasi le 17. Studio?


Butto lo sguardo sull'inserto della domenica del Sole che ho di fianco a me, mentre tu leggi le pagine economiche dall'altra parte del tavolo. 
"Non aver paura che la vita possa finire. Abbi invece paura che non possa mai cominciare davvero."
Touché, John Henry Newman. 
Touché. 
Eco. 

venerdì 25 novembre 2011

A me la mossa?


Se ti chiedessi sull'arte probabilmente mi citeresti tutti i libri di arte mai scritti... Michelangelo. Sai tante cose su di lui: le sue opere, le aspirazioni politiche, lui e il papa, le sue tendenze sessuali, tutto quanto vero? Ma scommetto che non sai dirmi che odore c'è nella Cappella Sistina. Non sei mai stato lì con la testa rivolta verso quel bellissimo soffitto... mai visto. Se ti chiedessi sulle donne, probabilmente mi faresti un compendio sulle tue preferenze, potrai perfino aver scopato qualche volta... ma non sai dirmi che cosa si prova a risvegliarsi accanto a una donna e sentirsi veramente felici. Sei uno tosto. E se ti chiedessi sulla guerra probabilmente mi getteresti Shakespeare in faccia eh? Ancora una volta sulla breccia cari amici?... ma non ne hai mai sfiorata una. Non hai mai tenuto in grembo la testa del tuo migliore amico vedendolo esalare l'ultimo respiro mentre con lo sguardo chiede aiuto. Se ti chiedessi sull'amore probabilmente mi diresti un sonetto. Ma guardando una donna non sei mai stato del tutto vulnerabile... non ne conosci una che ti risollevi con gli occhi, sentendo che Dio ha mandato un angelo sulla terra solo per te, per salvarti dagli abissi dell'Inferno. Non sai cosa si prova ad essere il suo angelo, avere tanto amore per lei, vicino a lei per sempre, in ogni circostanza, incluso il cancro. Non sai cosa si prova a dormire su una sedia d'ospedale per due mesi tenendole la mano, perché i dottori vedano nei tuoi occhi che il termine "orario delle visite" non si applica a te. Non sai cos'è la vera perdita, perché questa si verifica solo quando ami una cosa più di quanto ami te stesso: dubito che tu abbia mai osato amare qualcuno a tal punto. Io ti guardo, e non vedo un uomo intelligente, sicuro di sé, vedo un bulletto che si caga sotto dalla paura. Ma, sei un genio Will, chi lo nega questo. Nessuno può comprendere ciò che hai nel profondo. Ma tu hai la pretesa di sapere tutto di me perché hai visto un mio dipinto e hai fatto a pezzi la mia vita del cazzo? Sei orfano giusto? Credi che io riesca a inquadrare quanto sia stata difficile la tua vita, cosa provi, chi sei, perché ho letto Oliver Twist? Basta questo ad incasellarti? Personalmente, me ne strafrego di tutto questo, perché sai una cosa, non c'è niente che possa imparare da te che non legga in qualche libro del cazzo. A meno che tu non voglia parlare di te. Di chi sei. Allora la cosa mi affascina. Ci sto. Ma tu non vuoi farlo, vero campione? Sei terrorizzato da quello che diresti. A te la mossa, capo.


Will Hunting - Genio ribelle




Troppi pensieri in testa. 


Will Hunting.
Leila. 
Mail.
Cieli pieni zeppi di stelle.
Torte di mele.
Alone at home.
Colloqui di lavoro.


Vaffanculo non detti, ma che ho una gran voglia di dire. 


Inquietudine da equilibrio precario.
Sogni non proprio belli. 
Paura VS voglia di vivere.


Inaspettato, grazie. 
Mi salvi sempre. 


No, davvero, stasera non riesco a scrivere un post. 
Giornata lunatica, ma sono viva. 
Non voglio chiedermi in che senso, non voglio chiedermi nulla. 


On Air: Song 2, Blur.


Ho perso il conto delle ore di sonno arretrate. 
Ma fa niente. 


E ho una decina di post più sensati da pubblicare, ma... ma no. 




Inaspettato, grazie. 
Inaspettati, grazie. 


Vado a dormire forse. 

martedì 22 novembre 2011

Specchio

Non è che abbia chissà quanto da scrivere.
E allora lascia perdere, no?
Uhm. 
Uhm?
Scusa, la detective rossa di The Mentalist mi ha distratta.
E non inarcare il sopracciglio, così, persona orribile.
Ah-ah. 
E adesso, cosa sarebbe questo ah-ah di soddisfazione e presa per il culo?
No, niente...
Sì, lo so. Devo ammettere che mi ha fatto piacere? Mi ha fatto piacere, ok?
Mh-mmmh. 
Cos'è, adesso me stessa si mette a fare l'analista che non dice mai un cazzo e non fa una domanda diretta che sia una?
Di solito ti diverti, quando sei tu a farlo con gli altri. 
Appunto, con gli altri. Con me stessa non è divertente, so dove vuole arrivare, e dove posso arrivare io. 
...
Ma secondo te Jane e Lisbon combineranno mai qualcosa?
Perché questa domanda?
Così, pensavo. Si rincorrono. 
Aaah.
Oh, vaffanculo. 
Ahahahah. 
...
Allora, come stai, me lo dici?
Non lo so. 
Oggi è stato strano. Come quando vedi una cosa bella e hai paura di guardarla troppo, perché potrebbe scomparire. Sono... sulla difensiva.
Perché sbuffi?
Pensavo: "Che novità".
Già. 
...
Non scappare. 
Ci sto provando.
Non.scappare.
Ho paura. 
Lo so. 
...
Com'era filosofia oggi?
Uhm... mi piacevano di più le lezioni distruttive sulla linea esistenzialista. Aristotele... strutturalista del cazzo. 
E non ridere. 
Rido, ma condivido. E del rosso, che mi dici?
Eh, che ti dico...
E il biondino?
Mi sa che dopo il giro in Feltrinelli l'ho un po' smontato...
E il bello e dannato?
Più stronzo e narcisista che bello e dannato, mi sa. 
Un tempo ti sarebbe piaciuto.
Sì, lo so. Ma sono stanca di personaggi. 
...
Mi regali una pistola? Non ho mai sparato, con una vera.
Sì, scena figa, il "O ti uccido senza pietà" fa sempre il suo effetto. Ma... biasimi i personaggi altrui e continui a costruirti maschere?
Ammetterai anche tu che è molto più semplice, ricoprire un volto, piuttosto che disegnarlo, quel volto. 
...
Perché adesso non la spoglia, cazzo?
Perché qualcuno preferisce costruire una storia, piuttosto che tuffarcisi a peso morto. 
Io non mi ci tuffo a peso morto, nelle relazioni.
No, hai ragione, tu ti sbronzi e poi fai-
Taci.
Sì, ho già parlato abbastanza, ormai ci stai pensando.
Fanculo. Quelle non sono relazioni. Quelle non sono state relazioni.  
Tranne una, sbaglio?
Per favore, cerco di non pensare a quanto sono stata schifosamente brava a mandare tutto a puttane, quella volta. 
...
Continui a pensarci, vero?
Una mia risposta sarebbe superflua. 
La vedi, la parabola? 
Iperbole. Anzi, eterno ritorno, che ne dici?
Aaah, bella quella teoria. 
Eterno. Davvero?
Non so, secondo te?
No. Non può essere. Dev'esserci la chiave di volta, da qualche parte.
...
Cazzo. Ho capito il finale.
Dici che è così banale?
Spero mi sorprenda. Spero di sbagliarmi.
...
Secondo te cosa ho provato, oggi?
Lo sai meglio di me che al proprio analista non si pongono mai domande. 
Te lo chiedo proprio perché non voglio una risposta, forse.
Posso citare una mia collega, in questo caso?
Ti risponderei a mia volta con una citazione, ma me lo risparmio. Prego.
"Mi stupisce la freddezza con la quale mi racconta tutto questo."
Ahah, è venuta in mente anche me, oggi, appena salita in macchina. Il problema è questo, infatti: ho provato quello che non ho provato perché davvero non c'è più nulla o perché mi sono congelata, ibernata, rinchiusa nella mia gelida razionalità... come al solito?
E quel nulla che dovrebbe esserci, o non esserci? E' un nulla auto-imposto o naturale?
Ti prego, non partiamo con le solite domande che si susseguono una dopo l'altra, andando sempre più a fondo...
Cos'è, sei stanca?
Sì, sono stanca. 
...
Comunque, non lo so, cosa hai provato. Né stasera, né oggi, né stamattina. Non lo so.
Sai che non sto facendo sogni?
Eccome, se lo so.
Possibile che tu non mi dica nulla di nuovo e inaspettato, me stessa?
...
Ha bluffato! 
E allora?
No, niente, pensavo. 
Coppia di assi?
Oddio, me lo devi proprio ricordare? 
Certo che sì, lo so che è quel genere di figura di merda che ti fa sentire tanto, tanto, bene. 
In realtà pensavo a un altro bluff. Ma ora mi è tornata in mente un'altra partita a poker, di molti, molti anni fa.  Dio santissimo. 
Imbarazzo?
Sì, sono spesso imbarazzata da me stessa. 
Ehi, non tirarmi in mezzo.
No, non tu. Non questa volta. 
Ma, scusa, chi hai aggiunto alla conversazione?
Da quando hai sviluppato questo nerd-side?
...
Canzone?
Quella.
Oh, che monotonia. 
Eh, lo so. Se vuoi posso concederti una variatio con Adele. 
Avverti il mio entusiasmo?
Cosa posso dire, mi spiace che ti sia capitata io.
I vittimismi mi stanno sul culo.
Anche a me. Avevo voglia di starmi sul culo.
...
Secondo me possiamo smetterla qui.
Sì, anche secondo me.
Ma dai?
Sono te stessa, ogni tanto dobbiamo concordare, no?
Ogni tanto...
...
Sigaretta?
Sigaretta.
Ipod?
Ipod.
Adele?
No, l'altra.
Aaaah.
Ci sta sempre. Sempre. 
Wow, hai citato lui, questa volta.
Agosto... 2009, mi sa. 
Ah, grande estate. 
No comment. 

domenica 20 novembre 2011

Tracciare traiettorie migliori nei vuoti d'aria della Realtà


Io esco di casa.
Pensarlo e farlo. 
Accendere la macchina. Musica. 
Potersene andare così, senza chiedere a nessuno. Indipendenza. 
Per questo amo guidare. Perché posso andarmene, perché bastano due minuti e sono lontano da tutto. 
Sole. Aria fresca dal finestrino abbassato.
Musica. Musica. Musica. 
Sensazione di libertà. 
Mi piace guidare così, velocità non per incosciente ricerca di adrenalina, ma per libertà, cosciente e consapevole.
Quando fuggire è andarsene, scegliere di andarsene. 

Assaggiare la libertà ti fa tornare la voglia di provarci. 

On air: Liberi tutti, Subsonica.

Sunday bloody Sunday


Non ne ho voglia. 
Non ho voglia di tutta questa felicità sfacciata e inconsistente da "Questa volta è diverso, abbiamo sistemato le cose, andrà bene".
Non ho voglia di sentire lui fare le valigie alla cazzo all'una di notte, per tornarsene a Milano. 
Non ho voglia nemmeno di farvi credere che sia contenta. Siamo alla terza volta, o sbaglio? In un anno. Scusate se non stappo lo champagne e se non mi entusiasmo per i vostri programmi di vacanze natalizie tutti insieme... Vostri programmi, vostri. 
Non ho voglia di te che ti senti in competizione con me. Ho la metà dei tuoi anni, cazzo, e non me ne frega proprio una mazza di prendere il tuo posto. 
Non ho voglia di compilare la lista della spesa e segnare gli ennesimi biscotti. Non ho voglia di dispense riempite e riempite senza che nessuno si chieda mai come cazzo facciano a sparire i pacchi di biscotti.
Non ho voglia di tu che ti svegli e accendi la tv, al tuo volume assurdo, la mattina. Odio profondo.
Non ho voglia che mi si dica "Basta che non lasci tracce, come al solito.". 
Non ho voglia di guardarmi allo specchio e pensare se sono ingrassata o meno, provare disgusto e sentirmi uno schifo perché non ci sono più spigoli. Non ho voglia di cercare le ossa con le mani la mattina quando mi sveglio o la sera quando mi sto per addormentare. 
Non ho voglia di arrivare al lunedì più stanca di come sono arrivata al venerdì. 
Non ho voglia di bruciare benzina solo per stare in giro. 
Non ho voglia di cucinare cose delle quali conosco già la fine. 


Che due coglioni. 


Ieri ci ho provato. A stare bene, intendo. Ci ho provato davvero. 


Stare con te così, con quella naturalezza. 
Mi mancavi. Tanto. Davvero. 
Al di là di tutte le complicazioni del nostro rapporto. Di tutti i modi con i quali mi sono impegnata a rovinare tutto. 
Non ho voglia di piantare i paletti di un recinto in cui pascolare. Posso stare con un amico, senza pensare ai "ma" e ai "perché"?
Avrei voluto ringraziarti per avermi cercata, giovedì. Poi mi è sembrato stupido e ho preferito dire cose molto più stupide, così, per non correre il rischio di togliere un po' della nebbia che mi aleggia attorno.
Sono stata bene, e spero che lo stesso sia valso per te. 


Lavorare a Maaf mi lascia sempre la sensazione bellissima di star costruendo qualcosa. 
Non so quale strano meccanismo psico-distruttivo si fosse attivato nella mia mente quando ho pensato che avrei potuto rischiare di perdere tutto questo, compresa Arabica. 
Avevo davvero perso il contatto con la Realtà. 


Ieri non trovare il mio nome fra quelle pagine è stata una pugnalata. Non so cosa mi aspettassi, è naturale che le cose stiano a questo punto, ora. 
Però... ha fatto freddo. E non perché non ci fosse qualcosa scritto da me.
Avere la sensazione di non c'entrare più. 
Addio.
Lasciaci in pace.
Non dovevo fare quello che ho fatto, lo so. 
Ma io voglio c'entrare ancora. 
Perché ci tengo. 


[e mi fa terribilmente incazzare questa mia incapacità di trasmettere i sentimenti, come se non riuscissi mai ad allungare la mano e toccare davvero le cose, eppure, sono lì, basterebbe distendere un braccio... che frustrazione.] 


Quando arriva il pacco di Arabiche appena stampate è sempre meraviglia e orgoglio, orgoglio perché so dare un volto a quei nomi, una voce a quelle parole, un gesto a quelle immagini. 
Vorrei c'entrare ancora e di più, con tutto questo. 


Chiedo troppo?


Oggi ci riprovo?
C'è meno sole di ieri, e non so perché. 
Domani Milano, respiro già un po' meglio solo all'idea. 


Apro la finestra e faccio entrare un po' d'aria. 
Mi piace, entrare in camera e sentire quei cinque gradi in meno, e quell'aria fresca che sa di aria, nient'altro che aria. 
Se riuscissi anche a ricordarmi dove ho lasciato il quaderno con gli appunti...





I believe in the sun
though it is late in rising.


I believe in love
though it is absent.


I believe in God
though He is silent.


[Anonymous holocaust survivor - Cologne, Germany]

venerdì 18 novembre 2011

Di cicatrici e Bukowski


Sistemavo la mia libreria e sfogliavo i libri letti, ripercorrendo sottolineature e appunti. Sorridendo dei miei commenti, scritti con ironia, tristezza, rabbia o fredda presa di coscienza sulla realtà a lato delle pagine.
Mi è capitato fra le mani "Storie di ordinaria follia", di Charles Bukowski. 
Ho pensato: "Toh, parlavo di te proprio qualche giorno fa."
Sapevo che racconto andare a rileggere. L'unico che ho davvero amato, di Charles. Lo copio qui. Lo so, è un po' lungo, più lungo di un post. Però... leggetelo. Poi mi saprete dire. Poi vi saprete dire. 


La più bella donna della città


Cass era la più giovane e la più bella di cinque sorelle. Cass era la più bella ragazza di tutta la città. Mezzindiana, aveva un corpo stranamente flessuoso, focoso era e come di serpente, con due occhi che proprio ci dicevano. Cass era fuoco fluido in movimento. Era come uno spirito incastrato in una forma che però non riusciva a contenerlo. I capelli neri e lunghi, i capelli di seta, si muovevano ondeggiando e vorticando come il corpo volteggiava. Lo spirito, o alle stelle o giù ai calcagni. Non c'era via di mezzo, per Cass. C'era anche chi diceva che era pazza. Gli imbecilli lo dicevano. Gli scemi non potevano capirla. Agli uomini in genere Cass pareva una macchina da fottere, e quindi non gliene fregava niente, fosse o non fosse pazza. E Cass ballava e civettava, si lasciava baciare dagli uomini, ma, tranne qualche rara volta, quando si stava per venire al dunque, com'è come non è, Cass si eclissava, Cass aveva eluso gli uomini. Le sorelle l'accusavano di sprecare la sua bellezza, di non fare buon uso del cervello. Ma Cass ne aveva da vendere, di cervello e di spirito. Dipingeva, danzava, cantava, modellava la creta, e quando qualcuno era ferito, mortificato, nel corpo o nell'anima, Cass provava compassione per costui. Il suo cervello era, ecco, differente; la sua mentalità non era pratica, ecco quanto. Le sorelle eran gelose perché attraeva i loro uomini; ce l'avevano su con Cass perché, secondo loro, sciupava un sacco d'occasioni. Di solito Cass era gentile con quelli più brutti; i cosìddetti fusti non le dicevano niente. Le facevano schifo. "Senza nerbo" diceva, "senza grinta. Arrivano, alti in sella, con quei nasi ben fatti, quelle orecchie ben disegnate... Tutta esteriorità, e niente dentro." 
La sua indole era affine alla pazzia; aveva un temperamento che certi chiamavano pazzia. Il padre era morto alcolizzato, la madre era scappata via di casa, abbandonando le figlie. Le ragazze si rivolsero a certi loro parenti, che le misero in convento. Il convento era un posto molto triste, più per Cass che per le sorelle. Le altre ragazze erano gelose di Cass e a Cass toccava litigare sempre. Aveva segni di rasoiate sul braccio sinistro, in conseguenza d'un paio di quelle baruffe. Poi aveva una cicatrice permanente sulla guancia sinistra, ma lo sfregio anziché diminuirla sembrava accrescere la sua bellezza. 
Io la incontrai al West End Bar poco dopo ch'era venuta via dal convento. Essendo la più giovane delle sorelle era venuta via per ultima. Quella sera entrò là e, semplicemente, si venne a sedere vicino a me. Io ero forse l'uomo più brutto della città, e magari questo avrà influito in qualche modo. "Bevi?" le domandai. "Ma sicuro, come no?" 
Non ci dicemmo niente di straordinario, mi sa, quella sera; ma contava l'impressione che lei dava. Cass aveva scelto me e questo era quanto. Nessuna forzatura. Bere le piaceva e così fece molti bis. Non credo fosse ancora maggiorenne, però lì la servivano lo stesso. Magari aveva una carta d'identità falsa, chi lo sa. Comunque, ogni volta che tornava dalla toilette e veniva lì a sedersi accanto a me, io provavo un certo orgoglio. Non era solo la più bella ragazza della città, era anche una delle più belle donne che avessi mai visto. Le passai un braccio intorno alla vita e la baciai, una volta. 
"Mi trovi carina?" mi domandò. 
"Sì, certo, però poi c'è qualcos'altro... oltre a come ti presenti..." 
"Tutti quanti mi accusano di essere carina. Sul serio mi trovi carina?" 
"Non è il termine adatto, 'carina', non ti rende giustizia." 
Cass frugò nella borsetta. Pensavo che cercasse un fazzoletto. Tirò fuori uno spillone. Prima che potessi fermarla se l'infilò nel naso, da parte a parte, proprio sopra le narici. Provai disgusto e orrore. Mi guardò e scoppiò a ridere. "Mi trovi carina adesso? Cosa pensi adesso, amico?" 
Tirai via lo spillone e tamponai il sangue con un fazzoletto. Diverse persone, tra cui il proprietario, avevano visto quel numero. 
Il padrone del bar venne oltre. "Senti," disse a Cass, "provaci un'altra volta, e fili fuori. Non ci vanno, certi pezzi d'arte varia." 
"Al, vaffanculo, amico!" disse lei. 
"Vedi di tenerla a bada," disse a me il proprietario. 
"Sta' tranquillo," dissi io. 
"Il naso è mio," disse Cass, "e ci faccio quel che mi pare." 
"No," dissi, "fai male a me." 
"Vuoi dire che ti fa male, quando m'infilzo uno spillo nel naso?" 
"Sì. E' così." 
"Va bene. Non lo farò più. Sta' su bello." Mi baciò, con una specie di ghignetto misto al bacio, e premendosi il fazzoletto sulla ferita. Quando chiusero il locale ce ne andammo su da me. Avevo una birra e ci sedemmo a chiacchierare. Fu allora che avvertii quanto fosse gentile, percepii la bontà che era in lei. Si tradiva a sua insaputa. Poi però si ritraeva, ritornava selvatica, d'un balzo, piena di incongruità. Balzana. Schizoide. Una bellissima schizoide spirituale. Forse qualcuno, qualcosa, poi l'avrebbe rovinata per sempre. Io speravo che non toccasse a me. 
Andammo a letto e, dopo ch'ebbi spento la luce, Cass mi disse. "Ti va bene adesso? O domattina?" "Domattina." E mi voltai dall'altra parte. La mattina dopo mi alzai e andai a fare il caffé e gliene portai una tazza a letto. Si mise a ridere. "Sei il primo tu, che non ha avuto fretta." 
"Non c'è mica bisogno," le dissi, "di farlo per forza." 
"No, aspetta. Adesso ho voglia. Mi vado a dare una rinfrescata." Andò in bagno. Ne tornò poco dopo. Era stupenda, con i lunghi capelli neri lucenti, gli occhi e le labbra lucenti, tutta lucente... Mise in mostra il suo corpo con calma, come una cosa buona. Si infilò fra le lenzuola. "Vieni qua, amante mio." L'abbracciai. Mi baciò con abbandono, senza furia. L'accarezzai per tutto il corpo, fra i capelli. La montai. Era calda, e stretta. Cominciai a pompare piano piano, ché durasse. Mi guardava dritto negli occhi. "Come ti chiami?" le chiesi. "Ma che differenza fa?" mi chiese lei. Mi misi a ridere e continuai. Poi dopo si rivestì e la riaccompagnai in macchina al bar, ma non riuscivo a levarmela dalla testa. 
Non avevo un lavoro, così dormii fino alle due del pomeriggio, poi mi alzai e lessi il giornale. Ero nella vasca da bagno quando lei arrivò, con una grossa foglia: un orecchio d'elefante. "Lo sapevo che eri nella vasca," mi disse, "e così t'ho portato qualcosa per coprirti l'affare, naturista." Mi lanciò l'orecchio d'elefante dentro la vasca. 
"Come lo sapevi che m'avresti trovato nel bagno?" 
"Lo sapevo." 
Quasi ogni giorno Cass arrivava mentre ero dentro la vasca. A ore diverse, ma non si sbagliava quasi mai. E portava una foglia d'elefante. E poi facevamo l'amore. 
Un paio di volte, dietro sua telefonata, mi toccò andare a tirarla fuori, pagando la cauzione, ché l'avevano messa al fresco per ubriachezza e risse. "Questi figli di puttana," diceva, "solo perché ti pagano da bere, si credono in diritto alla patacca." 
"Ogni volta che accetti da bere, vai incontro a guai." 
"Ma io penso che gli interessi io, mica il mio corpo." 
"A me interessi te e anche il tuo corpo. Dubito però che gli altri uomini, perlopiù, vadano oltre il tuo corpo." 


Stetti fuori città per un sei mesi, girai di qua e di là, poi ritornai. Non m'ero scordato di Cass, ma c'era stato non so che bisticcio, e poi io avevo voglia di andare un po' in giro comunque, e quando tornai m'immaginavo che lei fosse andata via, invece ero al West End Bar da neanche una trentina di minuti quando entrò lei e venne a sedere vicino a me. 
"Eccoti qua, bastardo, sei tornato." 
Le offrii da bere. Poi la guardai. Portava un vestito con il colletto alto. Non le avevo mai visto una cosa così indosso. E sotto ciascun occhio ci aveva, conficcate, due spille con le capocchie di vetro. Si vedevano solo le capocchie, ma le spille erano dentro nella carne del viso. 
"Mannaggia a te, vuoi proprio deturparti, eh?" 
"Macché, è la moda, cretino!" 
"Tu sei matta." 
"Mi sei mancato," disse. 
"Hai qualcun altro?" 
"No, non c'è nessun altro. Solo te. Ma però batto. La metto dieci dollari. A te, te la do gratis." 
"Tirati via quei spilli." 
"No, è gran moda." 
"Mi fan male a me, da matti." 
"Dici sul serio?" 
"Perdio sul serio, sì." 
Pian piano Cass estrasse le due spille, le mise nella borsa. 
"Perché sfotti così la tua bellezza?" le chiesi. "Perché non ci vivi insieme, e via?" 
"Perché la gente pensa ch'è tutto quel che ho. La bellezza non è niente, la bellezza non dura. Non lo sai quanto sei fortunato, tu, a essere brutto, ché se a qualcuno gli piaci, così sai che è per qualche cosa d'altro." "E va bene," dissi, "sono fortunato." 
"Mica dico che sei brutto. Ti trovano brutto gli altri, ma hai una faccia affascinante." 
"Grazie." 
Bevemmo ancora. 
"Cos'è che fai?" domandò lei. 
"Niente. Non mi va di fare niente. Non m'importa." 
"Di niente, neanche a me. Se eri una donna, potevi battere." 
"Non credo che m'andrebbe, alla lunga, di fare intimità con tanti estranei. E'una roba che stanca." 
"Altroché se stanca. Tutto stanca, e consuma." 
Uscimmo insieme. La gente per strada si voltava ancora a guardare Cass. Era ancora una donna molto bella. Forse più bella che mai. Andammo su da me e io stappai una bottiglia di vino e ci mettemmo a parlare. Fra Cass e me era facile, parlare. Parlava lei un po' e io stavo a sentire poi parlavo io. Il colloquio andava avanti senza sforzo. Pareva che scoprissimo tanti segreti comuni a tanti. Quando ne scoprivamo uno grosso Cass scoppiava a ridere -quella sua risata- solo lei era buona. Era come gioia sprizzata dal fuoco. Sempre parlando ci abbracciavamo, ci baciavamo. Così andammo su di giri e ci venne voglia di andare a letto. Allora Cass si tolse quel vestito con il colletto alto e io la vidi: la brutta cicatrice frastagliata, attraverso la gola. Era larga e spessa. "Mannaggia a te, donna," le dissi dal letto, "mannaggia a te, che cosa ti sei fatta?" "Ci ho provato con un coccio di bottiglia una sera. Non ti piaccio più? Sono ancora bella?" 
La tirai giù dal letto e la baciai. Lei si sciolse e rise. "Certi sganciano la grana anticipata e poi, quando mi spoglio, non gli va più di farmisi. Io mi tengo il deca. E'una cosa buffissima." 
"Sì," dissi, "da morir dal ridere... Cass, sciagurata, io ti amo... smettila di distruggere te stessa: sei la donna più viva che abbia mai conosciuto." 
Ci baciammo ancora. Cass piangeva in silenzio. Sentivo sulla pelle le sue lacrime. I lunghi capelli neri erano sparsi intorno a me come un vessillo di morte. Ci congiungemmo e, piano, con dolcezza, con mestizia, facemmo l'amore, meravigliosamente. La mattina dopo Cass si alzò e preparò la colazione. Era calma e pareva felice. Cantava. Io restai a letto a godermi la sua felicità.Alla fine venne oltre e mi scosse. "Su bastardo! Datti una lavata alla faccia e all'uccello e poi vieni a far la pappa." 
La portai alla spiaggia quel giorno. Era giorno feriale e non ancora estate, quindi era magnifico, così deserto. Dei vagabondi straccioni dormivano fra l'erba, dove finiva la rena. Altri sedevano sulle panchine di pietra e si passavano una bottiglia. Dei gabbiani volteggiavano intorno, tranquilli eppure come sconcertati. Vecchie signore sui 70-80 sedevano sulle panchine a trattare la compravendita di immobili lasciati da mariti morti ammazzati tanto tempo fa dal ritmo della vita, dalla stupidità, dalla lotta per la sopravvivenza. Con tutto questo, c'era una gran pace nell'aria e noi passeggiammo e poi ci stendemmo sull'erba, senza quasi mai parlare. Era bello stare insieme e bastava. Comprai un paio di panini, patatine, e da bere, e mangiammo in riva al mare. Poi dormimmo abbracciati per un'oretta. Era in un certo modo anche meglio che far l'amore. C'era questo fluire via insieme senza nessuna tensione. Quando ci svegliammo, tornammo a casa mia e preparai la cena. 
Dopo cena proposi a Cass di restare lì da me e di metterci insieme. Stette un pezzo a guardarmi, prima di rispondere, poi disse piano: "No". 
La riportai al bar, le offrii da bere e me ne andai. Trovai un posto da facchino, l'indomani, in una fabbrica, e per tutta la settimana andai al lavoro. Alla sera ero troppo stanco per andare in giro, ma appena fu venerdì andai al West End Bar. Mi sedetti e aspettavo Cass. Passavano le ore. Dopo che ero bell'e sbronzo, il padrone vien oltre e mi fa: "Mi dispiace per quella amica tua." 
"Di che cosa?" domandai. 
"Mi dispiace. Non lo sapevi?" 
"No." 
"Suicidio. L'hanno seppellita ieri." 
"Seppellita?" domandai. Mi pareva che da un momento all'altro lei dovesse entrare da quella porta... Come poteva essere sottoterra? 
"Le sorelle le hanno fatto il funerale." 
"Suicidata? Me lo sai dire come?" 
"S'è tagliata la gola." 
"Ho capito. Dammi da bere, un altro." 
Bevvi fino all'ora di chiusura. Cass era la più bella delle cinque sorelle, la più bella della città. Non so come ce la feci a tornare a casa in macchina, e badavo a pensare: avrei dovuto insistere, che restasse con me, non arrendermi al suo "no". Tutto lasciava intendere che, a me, voleva bene. Gliene importava. Ma io m'ero comportato troppo alla stracca, sì, come se l'avessi presa sottogamba. 
Meritavo la morte, la mia morte e la sua. Ero un cane. No, perché dar la colpa ai cani? M'alzai e trovai una bottiglia di vino, mi ci attaccai a garganella. 
Cass la più bella ragazza della città era morta a vent'anni. 
Fuori qualcuno si mise a suonare il clacson. Un rumore arrogante, insistente, furioso. Posai giù la bottiglia e gridai: "Ma la smetti, brutto figlio di puttana? La vuoi smettere?" 
La notte seguitava ad andare avanti, non c'era niente che potessi fare.


La prima volta che l'ho letto ero in macchina, c'era la luce di un lampione. Era estate, inizio estate, mi pare giugno. Non so chi, o cosa, stessi aspettando, da sola in macchina con un libro fra le mani... probabilmente avevo solo voglia di notte. 
L'ho letto e... mi ricordo la foga con cui ho cercato una matita, nella borsa, per sottolineare quel passo. 
A volte vorrei potermi cucire addosso la bellezza di ciò che leggo. Vorrei cucirmela addosso, quella bellezza, ago, filo e parole.
La seconda volta l'ho letto a una persona, qualche settimana dopo. Davanti a una pizza da dividere, arrampicati sugli sgabelli di una pizzeria d'asporto. Fuori pioveva, era luglio. Bukowski in pausa pranzo.  


Cicatrici... 


Una sera, tempo fa, mi trovavo in un bar. Di fianco a me, al bancone, c'era un ragazzo. Beveva una coca, se non erro. Dal polsino della camicia sbucava una cicatrice meravigliosa, viola. 
Non riuscivo a smettere di guardarla. E, a un certo punto, ho chiesto al ragazzo: -Cosa ti è successo, lì?
Una caduta dalla bici che era terminata in una finestra infranta, vetri dovunque, cinquantasette punti. 
Mi ricordo che aveva riso, ad un tratto. 
-Perché ridi? Scusa, sono stata indiscreta...
-Ahah, no, non ti preoccupare... è che... nessuno me l'aveva mai chiesto. 
Mattia. 
Bel nome. Bella cicatrice. 


Forse la prima, o la seconda, o la quindicesima, persona di cui mi sono innamorata aveva sull'avambraccio braccio sinistro, poco prima dell'incavo del gomito, un nome. Tre lettere. Bianche, sottili, dolorosamente aggraziate. 
Il nome della persona che amava. Ho odiato e adorato quella cicatrice: non sarei mai stata all'altezza di un amore così indelebile, ma non potevo non riconoscere che quello fosse il tatuaggio più romantico che avessi mai visto. 


E ricordo la sensazione che mi dava, accarezzare le ultime cicatrici che ho amato. M'incantavo, ad accarezzarle. Le percorrevo con le dita e mi lasciavo ipnotizzare dalla differenza che facevano, al tatto, la pelle e le cicatrici. Volevo ubriacarmi del dolore che percepivo, che mi colpiva, violento, sfacciato, nell'osservare quei segni. E m'illudevo che ogni bacio potesse creare qualcosa di più potente e importante del dolore e della sofferenza. 
Ricordi.




Ho ragnatele di cicatrici che vedo solo io, ormai. Sono solo sottili ricami ton sur ton, nella pelle, appena identificabili, ma che io potrei ridisegnare senza difficoltà.
Sulla mano destra ho tre piccole cicatrici. Scottatura, scottatura, ago. 
Quando mi abbronzo mi spunta una cicatrice sul fianco sinistro. Una virgola bianca sulla pelle. Malattia.


Sono terrorizzata dall'idea che la vita non lasci un segno indelebile, vorrei aver scritto in faccia quello che ho vissuto. Amo le cicatrici perché rimangono. Non se ne vanno. Lasciano il segno, e tu non le puoi cancellare. Le puoi coprire, camuffare, ma non le elimini. 
Rimangono. E io... io ho sempre un po' paura che tutto se ne vada, scivoli via. Mi rendo conto che è assurdo, vivere nel terrore di perdere ciò che si ha... non è vita. Soprattutto perché, poi, ti ritrovi a fare cose strano, tipo fuggire sempre, essere la prima a lasciare per non essere lasciata, evitare i legami, ingurgitare tutto e subito per paura che poi scompaia... sì, è assurdo. Ma la vita mi ha insegnato questo, fino ad ora. Mi ha insegnato che devi crescere da sola, perché non puoi sempre contare sugli altri, mi ha insegnato che le persone se ne vanno, e tu non puoi farci un cazzo di niente, mi ha insegnato che i matrimoni durano un giorno, il resto degli anni sono convenzioni e tradimenti nascosti, mi ha insegnato che la felicità dura un attimo, che l'unico modo per non essere uccisa è ucciderti da sola, per prima.


Mi ha insegnato che ci sono solo ferite superficiali, che bruciano da morire ma che poi non lasciano alcun segno. 
Per questo amo le cicatrici. Perché non se ne vanno. Vorrei solo cicatrici. 
Il problema è che, come per tutto il resto, come per Cass, la maggior parte delle persone, quando vede l'orribile squarcio che ti sfregia, preferisce che tu ti rivesta. No, grazie, per me solo ferite superficiali.


Io ho bisogno di qualcosa che rimanga. Di qualcosa che lasci una cicatrice nella mia vita, non solo su di me. 

lunedì 14 novembre 2011

Nel vuoto per mano


Solo il vuoto, qui, sa di eternità.


Fuggire in lacrime da una lezione di Filosofia.
"Voi dite che queste cose sono sbagliate, in realtà le temete. Perché sono umane. Troppo umane"
Nietzsche, io ti amo. Ti amo perché mi fai un male terribile, e allo stesso tempo descrivi con un'esatezza drammatica tutto quello che ho dentro.


Devo smetterla con questi sbalzi di umore. Non posso vivere così: svegliarmi apatica, tre-quattro ore di buon umore da luce e conversazioni piacevoli, e poi il Baratro.
Non posso continuare ad assorbire certe lezioni e certi libri come una linfa velenosa. Non posso lasciarmi pugnalare così, da parole scritte e dette secoli, o decenni, fa. 
Non posso continuare così, consegnandomi alla ghigliottina dell'istante vissuto in sé e per sé.
Non posso continuare a scrivere così, vomitando su pagine e pagine i ricordi, le emozioni, le lacrime e i sorrisi.


Non penso che rimanga altro, però. Questo è l'unico modo in cui ho imparato a vivere.


Non posso seppellirti sotto metri di ghiaccio impenetrabile, per non sentire la voragine che mi squarcia ogni volta che ripenso a com'era, parlare con te.


Sono umana, cazzo. 
E non posso ricordarmelo solo quando vedo il mio sangue, stillare dalla pelle o sciogliersi nell'acqua. 
Io sono umana. 
Non può cancellarmi, non può farmi sparire. Non può estirparmi da te come un'erba infestante.
Messaggi, mail, consegnate per sempre alla casella "bozze" da un perentorio "lasciaci in pace". Forse un "lasciami in pace" sarebbe stato più esatto.
Penso. Voglio illudermi. Ho bisogno d'illudermi che non sia stato solo quell'attimo in cui hai creduto di esserti innamorato di me.
Ho bisogno d'illudermi, siamo arrivati a questo punto, bene. Ma, in fondo, fuori dalla Realtà per fuori dalla Realtà...


Non sto bene, mi sembra evidente. 
Dormo troppo poco. Mangio in un modo assurdo. Bevo troppo caffè. Oggi ho fumato solo una sigaretta, però, fino ad ora. 
Abito in una casa in cui nessuno chiede qualcosa. Abito in un mondo in cui nessuno chiede qualcosa.
Però io non posso evaporare, lo capite? Io sono qui, faccio casini, vivo in un modo assurdo, faccio domande che mettono a disagio e guardo troppo le persone negli occhi, lo so. 
Ma sono qui. 
E l'unica persona che mi ha abbracciata nell'ultimo mese e mezzo è a Londra.
Ho vent'anni, dovrei essere indipendente, lo so. Il problema è che mi sono costruita una forma strana di indipendenza, si chiama "annichilimento di tutti i bisogni".


Nel vuoto per mano. 
Nel vuoto si cade? 
Noi sapevamo volare.


Mi manca quella sensazione. 


Manca un po' tutto qui. 


[E, vaffanculo, io sul mio blog scrivo quello che voglio. Se vi infastidisce, cazzi vostri. Face it.] 


On air: Subsonica, Nel vuoto per mano (in particolare: Il Vento)

venerdì 11 novembre 2011

Cercasi Mr Gwyn disperatamente



A certi libri manca una cosa. Una pagina. In fondo, per ultima.
Una pagina in cui l'autore scriva cosa fare dopo aver letto l'ultima parola.
Perché, a me, certi libri lasciano una sensazione di mancanza terribile.


Ieri ho terminato Mr Gwyn. L'ho letto in un fiato, una notte e poco più.
In apnea.
Avevo bisogno di un libro del genere, che mi strappasse dalla Realtà e mi abbracciasse, tenendomi fra le sue pagine per un po'.
E si stava bene, fra le pagine di Mr Gwyn. Attimi di poesia così cristallina da commuoverti, attimi di concretezza tanto schietta da farti sbuffare una risata.
Pagine di particolari. Sì, particolari, quei minuscoli dettagli che nessuno nota mai, che puoi ignorare e comunque godere della bellezza di qualcosa. Ma sono i particolari quelli di cui t'innamori.
Baricco è così.
Mr Gwyn è dolceamaro. Romantico, come solo la malinconia sa essere. Naif. Triste.
Mr Gwyn ha tutte le caratteristiche della storia d'amore che vorrei vivere.


[Perché parlo sempre d'amore? Pur essendone assolutamente distante? Perché amore è l'unica cosa che può salvare l'uomo, dall'essere animale, dalla legge dell'utile che lo governa, dalla razionalità asettica. Amore può dare e togliere senso a ogni cosa come nient'altro.
Per me non è Dio a essere Amore. Ma è Amore ad essere Dio.]


Mr Gwyn è un libro che mio padre getterebbe dopo due pagine. Perché inutile, strano, quanto di più lontano dalla concretezza si possa scrivere. Ma a me questi libri fanno bene, mi tranquillizzano. Mi fanno pensare che non sono l'unica, ad avere questo modo così inesatto, ma così inevitabile, di guardare la vita.
Mi fanno sentire bella. Ed è strano, che un libro possa farti sentire bella. Senza specchi, senza bilancia, senza fotografie. Con delle parole.
Libri del genere sono a metà fra l'amicizia e l'amore. Ecco. Con le persone è sempre un disastro, quando ti ritrovi in quell'angolo miracoloso che si disegna fra l'amore e l'amicizia. Solitamente è più effimero di un tramonto. O di un'alba.
Solitamente basta una birra in più per sconfinare da una parte, per mandare in frantumi l'incantesimo.
[...] si ricordò di come ogni incantesimo sia fragile oltre ogni dire, e velocissima la vita nel suo rapinare.
Invece, con i libri funziona.
Il problema è quando li finisci. Ed è come quando ti stacchi da un abbraccio, ma stai ancora piangendo. Vorresti ritornare lì, in quell'incavo sicuro e tiepido fra quel collo e quella spalla, a scioglierti in lacrime che inzuppano una maglietta che è stata indossata proprio per finire così.
In quell'incavo, come fra quelle pagine, tu puoi piangere per il casino più incasinato che tu abbia mai combinato, ma con la sensazione che, alla fine, tutto si sistemerà.
Ecco.


Sono trascorse quasi ventiquattr'ore da quando ho terminato Mr Gwyn, e non ho ancora preso in mano un altro libro.
Io rivoglio lui.
Voglio Jasper Gwyn che mi spoglia e mi osserva, alla luce delle Caterina de' Medici.
Voglio Jasper Gwyn che scrive libri sotto pseudonimi e me li spedisce, senza dirmi che fra quelle pagine ha nascosto un mio ritratto.
Voglio che Jasper Gwyn mi faccia un ritratto, e mi riporti a casa. Perché i ritratti riportano le persone a casa. 
Voglio essere Rebecca, e Audrey. E il vecchio di Camden Town. E Tom.
Voglio trascorrere 32 giorni in uno studio che in realtà è un magazzino degli attrezzi abbandonato, a farmi fare un ritratto da un pittore che in realtà è uno scrittore.


Forse, Jasper Gwyn mi manca così tanto perché avevo la sensazione che fosse qualcuno a cui non importasse, quello che vedeva.
Andava oltre i corpi, gli involucri, spogliava le persone ma in realtà non erano i vestiti quelli che toglieva, non solo.


Cercasi Mr Gwyn disperatamente.


Lo cerco perché ne ho incontrato uno, di Mr Gwyn, tempo fa. So che non è solo un personaggio di un libro.
Solo che se n'è andato, come un personaggio se ne va quando richiudi la copertina di un libro che hai finito.
E mi manca esattamente come mi manca Mr Gwyn, ora.


Sto delirando. Lo so.


Chissà se leggi. Alcuni giorni penso di sì, altri sono certa di no.


"Mi basta saperti viva. In lacrime, ma viva. Ubriaca, ma viva."
Sì, sei egoista. Vorrei che ti fossi preoccupato di non fare del male anche a me, oltre che a lei. Certo, forse non avessi avuto fra le mani qualcuno di così propenso a farsi del male ti sarebbe riuscito meglio.


[...] Pensò anche la condanna di quelli, molti, che non sono capaci di toccare senza far male, e d'istinto cercò con gli occhi quelle mani e le piccole ferite.


Devo riprendere fiato, spegnere le lacrime.


Un giorno aveva conosciuto un uomo sposato che aveva un bellissimo modo di incasinare qualsiasi cosa toccasse. 
Baricco ha l'ironia delle pugnalate.


[Mi è appena passato per la mente il flash di un sogno fatto stanotte: venivo gettata in un lago nero e melmoso, pieno di cadaveri divorati dai vermi; non c'era nessuno e il lago era circondato da un canneto altissimo e sovrastato da un cielo temporalesco. No comment.]


Mentre riassetto le mie facoltà razionali e mando in stand-by quelle emotive, apro a caso Mr Gwyn e trascrivo qualche sottolineatura (stranamente, non ne ha moltissime, questo libro. Forse perché è l'atmosfera, quella che ti rapisce, non le frasi. Meno incisività, più sensazioni che sfumano.)


-Sì, è un bel mestiere, il copista.
-L'ho pensato anch'io.
-Un mestiere pulito, lei disse.


Così finì per capire che si trovava in una situazione nota a molti umani, ma non per questo meno dolorosa: ciò che, solo, li fa sentire vivi, è qualcosa che però, lentamente, è destinato ad ammazzarli. [cfr]


-Le risoluzioni definitive si prendono sempre e soltanto per uno stato d'animo che non è destinato a durare.
-Chi l'ha detto?
-Marcel Proust. Non si sbagliava mai, quello. 


Veniva da pensare che aspettassero di depositarsi sul fondo di un enorme bicchiere.


Se devo dimenticarti mi ricorderò di farlo, ma non chiedermi poi di dimenticare che me ne sono ricordato.


Voleva in qualche modo mettersi spalle al muro perché sapeva che solo in quel modo avrebbe avuto una chance di trovare, in se stesso, quello che cercava.


[...] e arrivò a fantasticare di come si sarebbero spostati, lui e il modello, per usare le ultime luci, o al contrario per rifugiarsi nel primo buio. 


Era radiosa, nella sua bellezza senza scopo. (io voglio una bellezza senza scopo)


[...] Si lasciò sprofondare in un buio muto, e quel buio era se stessa. lo poteva fare, e senza paura, e facilmente, perché qualcuno la stava guardando - se ne rese immediatamente conto. Per qualche ragione che non capiva, era finalmente sola, in modo perfetto, come soli non si è mai - o di rado, pensò, in qualche abbraccio d'amore.


La smetto, di fare la copista. I mestieri puliti non fanno per me. Ho ricominciato a respirare, e sorrido quasi.
Mr Gwyn mi ha concesso una carezza, prima di lasciarmi di nuovo.


Ha una bella copertina. Cartoncino a coste sottili, color crema, scritte bordeaux e nero. Profuma ancora troppo di libro nuovo, appena stampato, ma ha, in sottofondo, una nota squillante d'inchiostro che promette bene.
Ve lo consiglio, ma solo se siete emotivamente un poco più stabili di me. Altrimenti aspettate.


Adesso mando una mail a Baricco. Uno deve prendersi qualche responsabilità, quando scrive libri del genere.