venerdì 18 novembre 2011

Di cicatrici e Bukowski


Sistemavo la mia libreria e sfogliavo i libri letti, ripercorrendo sottolineature e appunti. Sorridendo dei miei commenti, scritti con ironia, tristezza, rabbia o fredda presa di coscienza sulla realtà a lato delle pagine.
Mi è capitato fra le mani "Storie di ordinaria follia", di Charles Bukowski. 
Ho pensato: "Toh, parlavo di te proprio qualche giorno fa."
Sapevo che racconto andare a rileggere. L'unico che ho davvero amato, di Charles. Lo copio qui. Lo so, è un po' lungo, più lungo di un post. Però... leggetelo. Poi mi saprete dire. Poi vi saprete dire. 


La più bella donna della città


Cass era la più giovane e la più bella di cinque sorelle. Cass era la più bella ragazza di tutta la città. Mezzindiana, aveva un corpo stranamente flessuoso, focoso era e come di serpente, con due occhi che proprio ci dicevano. Cass era fuoco fluido in movimento. Era come uno spirito incastrato in una forma che però non riusciva a contenerlo. I capelli neri e lunghi, i capelli di seta, si muovevano ondeggiando e vorticando come il corpo volteggiava. Lo spirito, o alle stelle o giù ai calcagni. Non c'era via di mezzo, per Cass. C'era anche chi diceva che era pazza. Gli imbecilli lo dicevano. Gli scemi non potevano capirla. Agli uomini in genere Cass pareva una macchina da fottere, e quindi non gliene fregava niente, fosse o non fosse pazza. E Cass ballava e civettava, si lasciava baciare dagli uomini, ma, tranne qualche rara volta, quando si stava per venire al dunque, com'è come non è, Cass si eclissava, Cass aveva eluso gli uomini. Le sorelle l'accusavano di sprecare la sua bellezza, di non fare buon uso del cervello. Ma Cass ne aveva da vendere, di cervello e di spirito. Dipingeva, danzava, cantava, modellava la creta, e quando qualcuno era ferito, mortificato, nel corpo o nell'anima, Cass provava compassione per costui. Il suo cervello era, ecco, differente; la sua mentalità non era pratica, ecco quanto. Le sorelle eran gelose perché attraeva i loro uomini; ce l'avevano su con Cass perché, secondo loro, sciupava un sacco d'occasioni. Di solito Cass era gentile con quelli più brutti; i cosìddetti fusti non le dicevano niente. Le facevano schifo. "Senza nerbo" diceva, "senza grinta. Arrivano, alti in sella, con quei nasi ben fatti, quelle orecchie ben disegnate... Tutta esteriorità, e niente dentro." 
La sua indole era affine alla pazzia; aveva un temperamento che certi chiamavano pazzia. Il padre era morto alcolizzato, la madre era scappata via di casa, abbandonando le figlie. Le ragazze si rivolsero a certi loro parenti, che le misero in convento. Il convento era un posto molto triste, più per Cass che per le sorelle. Le altre ragazze erano gelose di Cass e a Cass toccava litigare sempre. Aveva segni di rasoiate sul braccio sinistro, in conseguenza d'un paio di quelle baruffe. Poi aveva una cicatrice permanente sulla guancia sinistra, ma lo sfregio anziché diminuirla sembrava accrescere la sua bellezza. 
Io la incontrai al West End Bar poco dopo ch'era venuta via dal convento. Essendo la più giovane delle sorelle era venuta via per ultima. Quella sera entrò là e, semplicemente, si venne a sedere vicino a me. Io ero forse l'uomo più brutto della città, e magari questo avrà influito in qualche modo. "Bevi?" le domandai. "Ma sicuro, come no?" 
Non ci dicemmo niente di straordinario, mi sa, quella sera; ma contava l'impressione che lei dava. Cass aveva scelto me e questo era quanto. Nessuna forzatura. Bere le piaceva e così fece molti bis. Non credo fosse ancora maggiorenne, però lì la servivano lo stesso. Magari aveva una carta d'identità falsa, chi lo sa. Comunque, ogni volta che tornava dalla toilette e veniva lì a sedersi accanto a me, io provavo un certo orgoglio. Non era solo la più bella ragazza della città, era anche una delle più belle donne che avessi mai visto. Le passai un braccio intorno alla vita e la baciai, una volta. 
"Mi trovi carina?" mi domandò. 
"Sì, certo, però poi c'è qualcos'altro... oltre a come ti presenti..." 
"Tutti quanti mi accusano di essere carina. Sul serio mi trovi carina?" 
"Non è il termine adatto, 'carina', non ti rende giustizia." 
Cass frugò nella borsetta. Pensavo che cercasse un fazzoletto. Tirò fuori uno spillone. Prima che potessi fermarla se l'infilò nel naso, da parte a parte, proprio sopra le narici. Provai disgusto e orrore. Mi guardò e scoppiò a ridere. "Mi trovi carina adesso? Cosa pensi adesso, amico?" 
Tirai via lo spillone e tamponai il sangue con un fazzoletto. Diverse persone, tra cui il proprietario, avevano visto quel numero. 
Il padrone del bar venne oltre. "Senti," disse a Cass, "provaci un'altra volta, e fili fuori. Non ci vanno, certi pezzi d'arte varia." 
"Al, vaffanculo, amico!" disse lei. 
"Vedi di tenerla a bada," disse a me il proprietario. 
"Sta' tranquillo," dissi io. 
"Il naso è mio," disse Cass, "e ci faccio quel che mi pare." 
"No," dissi, "fai male a me." 
"Vuoi dire che ti fa male, quando m'infilzo uno spillo nel naso?" 
"Sì. E' così." 
"Va bene. Non lo farò più. Sta' su bello." Mi baciò, con una specie di ghignetto misto al bacio, e premendosi il fazzoletto sulla ferita. Quando chiusero il locale ce ne andammo su da me. Avevo una birra e ci sedemmo a chiacchierare. Fu allora che avvertii quanto fosse gentile, percepii la bontà che era in lei. Si tradiva a sua insaputa. Poi però si ritraeva, ritornava selvatica, d'un balzo, piena di incongruità. Balzana. Schizoide. Una bellissima schizoide spirituale. Forse qualcuno, qualcosa, poi l'avrebbe rovinata per sempre. Io speravo che non toccasse a me. 
Andammo a letto e, dopo ch'ebbi spento la luce, Cass mi disse. "Ti va bene adesso? O domattina?" "Domattina." E mi voltai dall'altra parte. La mattina dopo mi alzai e andai a fare il caffé e gliene portai una tazza a letto. Si mise a ridere. "Sei il primo tu, che non ha avuto fretta." 
"Non c'è mica bisogno," le dissi, "di farlo per forza." 
"No, aspetta. Adesso ho voglia. Mi vado a dare una rinfrescata." Andò in bagno. Ne tornò poco dopo. Era stupenda, con i lunghi capelli neri lucenti, gli occhi e le labbra lucenti, tutta lucente... Mise in mostra il suo corpo con calma, come una cosa buona. Si infilò fra le lenzuola. "Vieni qua, amante mio." L'abbracciai. Mi baciò con abbandono, senza furia. L'accarezzai per tutto il corpo, fra i capelli. La montai. Era calda, e stretta. Cominciai a pompare piano piano, ché durasse. Mi guardava dritto negli occhi. "Come ti chiami?" le chiesi. "Ma che differenza fa?" mi chiese lei. Mi misi a ridere e continuai. Poi dopo si rivestì e la riaccompagnai in macchina al bar, ma non riuscivo a levarmela dalla testa. 
Non avevo un lavoro, così dormii fino alle due del pomeriggio, poi mi alzai e lessi il giornale. Ero nella vasca da bagno quando lei arrivò, con una grossa foglia: un orecchio d'elefante. "Lo sapevo che eri nella vasca," mi disse, "e così t'ho portato qualcosa per coprirti l'affare, naturista." Mi lanciò l'orecchio d'elefante dentro la vasca. 
"Come lo sapevi che m'avresti trovato nel bagno?" 
"Lo sapevo." 
Quasi ogni giorno Cass arrivava mentre ero dentro la vasca. A ore diverse, ma non si sbagliava quasi mai. E portava una foglia d'elefante. E poi facevamo l'amore. 
Un paio di volte, dietro sua telefonata, mi toccò andare a tirarla fuori, pagando la cauzione, ché l'avevano messa al fresco per ubriachezza e risse. "Questi figli di puttana," diceva, "solo perché ti pagano da bere, si credono in diritto alla patacca." 
"Ogni volta che accetti da bere, vai incontro a guai." 
"Ma io penso che gli interessi io, mica il mio corpo." 
"A me interessi te e anche il tuo corpo. Dubito però che gli altri uomini, perlopiù, vadano oltre il tuo corpo." 


Stetti fuori città per un sei mesi, girai di qua e di là, poi ritornai. Non m'ero scordato di Cass, ma c'era stato non so che bisticcio, e poi io avevo voglia di andare un po' in giro comunque, e quando tornai m'immaginavo che lei fosse andata via, invece ero al West End Bar da neanche una trentina di minuti quando entrò lei e venne a sedere vicino a me. 
"Eccoti qua, bastardo, sei tornato." 
Le offrii da bere. Poi la guardai. Portava un vestito con il colletto alto. Non le avevo mai visto una cosa così indosso. E sotto ciascun occhio ci aveva, conficcate, due spille con le capocchie di vetro. Si vedevano solo le capocchie, ma le spille erano dentro nella carne del viso. 
"Mannaggia a te, vuoi proprio deturparti, eh?" 
"Macché, è la moda, cretino!" 
"Tu sei matta." 
"Mi sei mancato," disse. 
"Hai qualcun altro?" 
"No, non c'è nessun altro. Solo te. Ma però batto. La metto dieci dollari. A te, te la do gratis." 
"Tirati via quei spilli." 
"No, è gran moda." 
"Mi fan male a me, da matti." 
"Dici sul serio?" 
"Perdio sul serio, sì." 
Pian piano Cass estrasse le due spille, le mise nella borsa. 
"Perché sfotti così la tua bellezza?" le chiesi. "Perché non ci vivi insieme, e via?" 
"Perché la gente pensa ch'è tutto quel che ho. La bellezza non è niente, la bellezza non dura. Non lo sai quanto sei fortunato, tu, a essere brutto, ché se a qualcuno gli piaci, così sai che è per qualche cosa d'altro." "E va bene," dissi, "sono fortunato." 
"Mica dico che sei brutto. Ti trovano brutto gli altri, ma hai una faccia affascinante." 
"Grazie." 
Bevemmo ancora. 
"Cos'è che fai?" domandò lei. 
"Niente. Non mi va di fare niente. Non m'importa." 
"Di niente, neanche a me. Se eri una donna, potevi battere." 
"Non credo che m'andrebbe, alla lunga, di fare intimità con tanti estranei. E'una roba che stanca." 
"Altroché se stanca. Tutto stanca, e consuma." 
Uscimmo insieme. La gente per strada si voltava ancora a guardare Cass. Era ancora una donna molto bella. Forse più bella che mai. Andammo su da me e io stappai una bottiglia di vino e ci mettemmo a parlare. Fra Cass e me era facile, parlare. Parlava lei un po' e io stavo a sentire poi parlavo io. Il colloquio andava avanti senza sforzo. Pareva che scoprissimo tanti segreti comuni a tanti. Quando ne scoprivamo uno grosso Cass scoppiava a ridere -quella sua risata- solo lei era buona. Era come gioia sprizzata dal fuoco. Sempre parlando ci abbracciavamo, ci baciavamo. Così andammo su di giri e ci venne voglia di andare a letto. Allora Cass si tolse quel vestito con il colletto alto e io la vidi: la brutta cicatrice frastagliata, attraverso la gola. Era larga e spessa. "Mannaggia a te, donna," le dissi dal letto, "mannaggia a te, che cosa ti sei fatta?" "Ci ho provato con un coccio di bottiglia una sera. Non ti piaccio più? Sono ancora bella?" 
La tirai giù dal letto e la baciai. Lei si sciolse e rise. "Certi sganciano la grana anticipata e poi, quando mi spoglio, non gli va più di farmisi. Io mi tengo il deca. E'una cosa buffissima." 
"Sì," dissi, "da morir dal ridere... Cass, sciagurata, io ti amo... smettila di distruggere te stessa: sei la donna più viva che abbia mai conosciuto." 
Ci baciammo ancora. Cass piangeva in silenzio. Sentivo sulla pelle le sue lacrime. I lunghi capelli neri erano sparsi intorno a me come un vessillo di morte. Ci congiungemmo e, piano, con dolcezza, con mestizia, facemmo l'amore, meravigliosamente. La mattina dopo Cass si alzò e preparò la colazione. Era calma e pareva felice. Cantava. Io restai a letto a godermi la sua felicità.Alla fine venne oltre e mi scosse. "Su bastardo! Datti una lavata alla faccia e all'uccello e poi vieni a far la pappa." 
La portai alla spiaggia quel giorno. Era giorno feriale e non ancora estate, quindi era magnifico, così deserto. Dei vagabondi straccioni dormivano fra l'erba, dove finiva la rena. Altri sedevano sulle panchine di pietra e si passavano una bottiglia. Dei gabbiani volteggiavano intorno, tranquilli eppure come sconcertati. Vecchie signore sui 70-80 sedevano sulle panchine a trattare la compravendita di immobili lasciati da mariti morti ammazzati tanto tempo fa dal ritmo della vita, dalla stupidità, dalla lotta per la sopravvivenza. Con tutto questo, c'era una gran pace nell'aria e noi passeggiammo e poi ci stendemmo sull'erba, senza quasi mai parlare. Era bello stare insieme e bastava. Comprai un paio di panini, patatine, e da bere, e mangiammo in riva al mare. Poi dormimmo abbracciati per un'oretta. Era in un certo modo anche meglio che far l'amore. C'era questo fluire via insieme senza nessuna tensione. Quando ci svegliammo, tornammo a casa mia e preparai la cena. 
Dopo cena proposi a Cass di restare lì da me e di metterci insieme. Stette un pezzo a guardarmi, prima di rispondere, poi disse piano: "No". 
La riportai al bar, le offrii da bere e me ne andai. Trovai un posto da facchino, l'indomani, in una fabbrica, e per tutta la settimana andai al lavoro. Alla sera ero troppo stanco per andare in giro, ma appena fu venerdì andai al West End Bar. Mi sedetti e aspettavo Cass. Passavano le ore. Dopo che ero bell'e sbronzo, il padrone vien oltre e mi fa: "Mi dispiace per quella amica tua." 
"Di che cosa?" domandai. 
"Mi dispiace. Non lo sapevi?" 
"No." 
"Suicidio. L'hanno seppellita ieri." 
"Seppellita?" domandai. Mi pareva che da un momento all'altro lei dovesse entrare da quella porta... Come poteva essere sottoterra? 
"Le sorelle le hanno fatto il funerale." 
"Suicidata? Me lo sai dire come?" 
"S'è tagliata la gola." 
"Ho capito. Dammi da bere, un altro." 
Bevvi fino all'ora di chiusura. Cass era la più bella delle cinque sorelle, la più bella della città. Non so come ce la feci a tornare a casa in macchina, e badavo a pensare: avrei dovuto insistere, che restasse con me, non arrendermi al suo "no". Tutto lasciava intendere che, a me, voleva bene. Gliene importava. Ma io m'ero comportato troppo alla stracca, sì, come se l'avessi presa sottogamba. 
Meritavo la morte, la mia morte e la sua. Ero un cane. No, perché dar la colpa ai cani? M'alzai e trovai una bottiglia di vino, mi ci attaccai a garganella. 
Cass la più bella ragazza della città era morta a vent'anni. 
Fuori qualcuno si mise a suonare il clacson. Un rumore arrogante, insistente, furioso. Posai giù la bottiglia e gridai: "Ma la smetti, brutto figlio di puttana? La vuoi smettere?" 
La notte seguitava ad andare avanti, non c'era niente che potessi fare.


La prima volta che l'ho letto ero in macchina, c'era la luce di un lampione. Era estate, inizio estate, mi pare giugno. Non so chi, o cosa, stessi aspettando, da sola in macchina con un libro fra le mani... probabilmente avevo solo voglia di notte. 
L'ho letto e... mi ricordo la foga con cui ho cercato una matita, nella borsa, per sottolineare quel passo. 
A volte vorrei potermi cucire addosso la bellezza di ciò che leggo. Vorrei cucirmela addosso, quella bellezza, ago, filo e parole.
La seconda volta l'ho letto a una persona, qualche settimana dopo. Davanti a una pizza da dividere, arrampicati sugli sgabelli di una pizzeria d'asporto. Fuori pioveva, era luglio. Bukowski in pausa pranzo.  


Cicatrici... 


Una sera, tempo fa, mi trovavo in un bar. Di fianco a me, al bancone, c'era un ragazzo. Beveva una coca, se non erro. Dal polsino della camicia sbucava una cicatrice meravigliosa, viola. 
Non riuscivo a smettere di guardarla. E, a un certo punto, ho chiesto al ragazzo: -Cosa ti è successo, lì?
Una caduta dalla bici che era terminata in una finestra infranta, vetri dovunque, cinquantasette punti. 
Mi ricordo che aveva riso, ad un tratto. 
-Perché ridi? Scusa, sono stata indiscreta...
-Ahah, no, non ti preoccupare... è che... nessuno me l'aveva mai chiesto. 
Mattia. 
Bel nome. Bella cicatrice. 


Forse la prima, o la seconda, o la quindicesima, persona di cui mi sono innamorata aveva sull'avambraccio braccio sinistro, poco prima dell'incavo del gomito, un nome. Tre lettere. Bianche, sottili, dolorosamente aggraziate. 
Il nome della persona che amava. Ho odiato e adorato quella cicatrice: non sarei mai stata all'altezza di un amore così indelebile, ma non potevo non riconoscere che quello fosse il tatuaggio più romantico che avessi mai visto. 


E ricordo la sensazione che mi dava, accarezzare le ultime cicatrici che ho amato. M'incantavo, ad accarezzarle. Le percorrevo con le dita e mi lasciavo ipnotizzare dalla differenza che facevano, al tatto, la pelle e le cicatrici. Volevo ubriacarmi del dolore che percepivo, che mi colpiva, violento, sfacciato, nell'osservare quei segni. E m'illudevo che ogni bacio potesse creare qualcosa di più potente e importante del dolore e della sofferenza. 
Ricordi.




Ho ragnatele di cicatrici che vedo solo io, ormai. Sono solo sottili ricami ton sur ton, nella pelle, appena identificabili, ma che io potrei ridisegnare senza difficoltà.
Sulla mano destra ho tre piccole cicatrici. Scottatura, scottatura, ago. 
Quando mi abbronzo mi spunta una cicatrice sul fianco sinistro. Una virgola bianca sulla pelle. Malattia.


Sono terrorizzata dall'idea che la vita non lasci un segno indelebile, vorrei aver scritto in faccia quello che ho vissuto. Amo le cicatrici perché rimangono. Non se ne vanno. Lasciano il segno, e tu non le puoi cancellare. Le puoi coprire, camuffare, ma non le elimini. 
Rimangono. E io... io ho sempre un po' paura che tutto se ne vada, scivoli via. Mi rendo conto che è assurdo, vivere nel terrore di perdere ciò che si ha... non è vita. Soprattutto perché, poi, ti ritrovi a fare cose strano, tipo fuggire sempre, essere la prima a lasciare per non essere lasciata, evitare i legami, ingurgitare tutto e subito per paura che poi scompaia... sì, è assurdo. Ma la vita mi ha insegnato questo, fino ad ora. Mi ha insegnato che devi crescere da sola, perché non puoi sempre contare sugli altri, mi ha insegnato che le persone se ne vanno, e tu non puoi farci un cazzo di niente, mi ha insegnato che i matrimoni durano un giorno, il resto degli anni sono convenzioni e tradimenti nascosti, mi ha insegnato che la felicità dura un attimo, che l'unico modo per non essere uccisa è ucciderti da sola, per prima.


Mi ha insegnato che ci sono solo ferite superficiali, che bruciano da morire ma che poi non lasciano alcun segno. 
Per questo amo le cicatrici. Perché non se ne vanno. Vorrei solo cicatrici. 
Il problema è che, come per tutto il resto, come per Cass, la maggior parte delle persone, quando vede l'orribile squarcio che ti sfregia, preferisce che tu ti rivesta. No, grazie, per me solo ferite superficiali.


Io ho bisogno di qualcosa che rimanga. Di qualcosa che lasci una cicatrice nella mia vita, non solo su di me. 

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