venerdì 15 giugno 2012

A me la mossa, again.


Sta a me. Ora sta a me.

Arriviamo in contemporanea, stamattina. Lei leggermente in ritardo, io casualmente in anticipo. 
Scende dalla bicicletta. Abito rosa antico, cintura sottile, di cuoio, in vita. Orecchini pendenti, molto lunghi, con due perle a goccia in fondo.
Occhi di quell’azzurro-grigio che ho notato la prima volta.
La prima volta… me la ricordo? Era… dicembre. Avevo lasciato da due settimane la clinica di Milano.
Faceva freddo, aveva appena smesso di nevicare. Avevamo appuntamento alle 18. Via, numero civico.
-Credo sia questo… sì, è il suo cognome.
Mia madre che osserva il palazzo e commenta con un: -Certo, quella di prima aveva uno studio un po’ più promettente…
C’era un buon profumo sulle scale. Pulito. Caldo, ma non soffocante. Tiepido.
Salivo cercando di non produrre rumori. “Non la sento mai arrivare, sembra un gatto.”, mi aveva detto, una volta, l’altra dottoressa.
Secondo piano. Porta di sinistra. Si apre.
-Buonasera.- voce soffusa, velata. Sorriso. Occhi azzurro-grigio che mi guardano e tentano di non farmi scappare, da subito.
Sapevo di avere occhi scuri e diffidenti. Sguardo distaccato, razionale.
Ero spaventata, sulla difensiva, arrabbiata. Come ogni volta che dovevo conoscere un nuovo medico.
Stretta di mano.
Mi hanno sempre fatto i complimenti per la mia stretta di mano. Soprattutto gli uomini. Mi guardano, increduli, e commentano con un “Però.”, di solito.
Le strette di mano deboli sono come la birra calda.
La sua stretta di mano fu decisa, ma non prevaricatrice. Come il suo sguardo.
Lo apprezzai, senza darlo a vedere. Ovviamente.

Entrammo in quello studio, e mentre mia madre spiegava la mia inspiegabile vita, io assimilavo dettagli. Il tono di azzurro delle pareti, azzurro scuro. La luce, che proveniva da una lampada posata su un mobile lungo e basso, e che sembrava sdraiarsi sulla tonalità di quei muri, accarezzarla.
Le finestre. Alte, con gli infissi dipinti di bianco. I vetri sottili.
La libreria.
Due poltroncine a righe, che dopo un anno sarebbero state sostituite e sistemate nella sala d’aspetto.
La scrivania e le sedie antiche, di pregiato legno scuro. Lo toccai, mentre mia madre parlava, seguendo le venature di quel legno, soffermandomi sui nodi.
Indossavo un vestito di cachemire grigio. Con lo scollo a barca. 
Collant leggere, grigio scuro.
Chignon, forse.
Ero minuscola. Occupavo un terzo di quella sedia.

Quando uscimmo, aveva ripreso a nevicare.
-Mettiti il cappotto.
-No.
Volevo credere in qualcosa. Fosse stato il gelo di quella neve, volevo crederci fino alle viscere.

I primi mesi sono sempre faticosi. Si ricostruisce la propria vita, si scava, si trivella, si apre il passato come si aprono le carni. È di una violenza inaudita.
Uscivo da scuola, infilavo gli auricolari dell’iPod, prendevo il treno, dormivo, arrivavo, camminavo, toglievo gli auricolari dell’iPod, 45 minuti, rimettevo gli auricolari dell’iPod, riprendevo il treno, arrivavo, camminavo, entravo in casa, mi sdraiavo sul letto, rimanevo lì tutto il pomeriggio, al buio.
Studiavo la notte.
Il primo anno non piansi una lacrima. Il primo anno mi sedevo e rimanevo in quella posizione durante tutta la seduta. Il primo anno restavo in silenzio. Il primo anno ci osservavamo.
Il primo anno mi sentivo in colpa. Il primo anno soffocavo nell’egocentrismo di quei quarantacinque minuti della vita di una persona spesi ad ascoltare me, che non avevo altro da raccontare se non i miei fallimenti, le mie discussioni con mia madre e la mia vita da adolescente depressa del cazzo. Il primo anno mi vestivo sempre di nero. Il primo anno c’erano due sedute a settimana.
Il secondo anno iniziò con un “Sto concretamente pensando al suicidio.”
Proseguì con mesi di razionale autoanalisi. Parlavo. Non volevo domande.  
-E’ gelida come un’assassina.
-L’anoressia non è altro che la tortura di una morte lenta a sopraggiungere, in fondo.
Mesi che si conclusero con quarantacinque minuti di pianto incontrollato. La disperazione. Eravamo arrivate alla disperazione. Finalmente.

Dopo? Dopo abbiamo iniziato a costruire. Perché io non dovevo ricostruire, dovevo costruire.
L’anoressia scomparve. Benvenuta, bulimia.
L’anoressia è rimasta solo in pubblico. Nel privato, ho trovato una ben peggiore compagna.
Il cervello si rifiuta di impiantare qualcosa di stabile e sicuro, quando è abituato a dover, prima o poi, rinunciare a tutto.
I disturbi alimentari non sono che un’eccezionale metafora: vuoi scomparire e allora smetti di nutrirti, credi di non contare nulla per gli altri, al punto da voler occupare meno spazio possibile nelle loro vite, e allora dimagrisci, per occupare meno spazio possibile anche nella realtà, arrivi a considerare il cibo come qualcosa di sbagliato, profondamente sbagliato, poi, chissà come, ricominci a mangiare, e allora vomiti, perché il cibo rimane sbagliato, insensato, un veleno incapace, ora, farti bene.
Semplice.

La fine del Liceo, la non-scelta dell’Università, le mille persone, la rinuncia agli studi, quel lavoro di merda, l’altro lavoro.
-E’ fidanzato, e allora, Agnese?
Era una brava dottoressa. Sapeva instillare il dubbio alla perfezione.
-Indovini? Ho fatto quella cazzata che, un mese fa, le ho detto non avrei mai potuto fare.
Secondo corso di Laurea. La fatica dell’autunno.
-E’ finita, ieri sera. E, sempre ieri sera, mio padre, all’una, se n’è andato, per l’ennesima volta. E… pensi, io oggi compio vent’anni.
Ottobre. Novembre. Dicembre.
Il lavoro in libreria. Altre persone, Persone.
Sei mesi. Di Tutto. Di sedute saltate, di sedute svogliate, di sedute in lacrime, di sedute bastarde, di sedute arrabbiate, sedute preoccupate. Di me in jeans bucati e canottiera. Di me in stivali, vestito e occhiali da vista. Di me perfettamente truccata. Completamente struccata. In ritardo. Seduta, svaccata, gambe accavallate, gambe incrociate, una gamba piegata sotto il sedere. Chignon, capelli sciolti, coda, treccia.
Di “oh, ha messo il lettino”, e io rimango seduta.

Di: -Dottoressa, io vorrei interrompere la terapia.

Siamo salite, stamattina. Insieme.
I gradini hanno scricchiolato, come quella sera di dicembre.
Mi sono seduta davanti alla scrivania, come quella sera di dicembre.
-Sta a me, ora.
-Sta a lei.
-Ci vediamo a settembre, allora, vediamo come va. Ma si ricordi che i disturbi alimentari sono inequivocabile segno di qualcosa che continua a non andare.
Ho sorriso. Mentre un brivido mi congelava la colonna vertebrale.
Ho salutato quelle pareti azzurre, uscendo. Le finestre aperte. La lampada, spenta. L’odiato lettino. La libreria, dove ora albergano anche numeri di Arabica. Le sedie a righe della sala d’attesa.
Ho salutato, con gli occhi, tutti questi anni.  

Io non so se ce la faccio. Ma ora sta a me. 

sabato 24 marzo 2012

Did I say that I need you?

E, alla fine, altro non siamo se non Vite che s'intrecciano, che s'intersecano, che s'incastrano.
Ho un Oceano che si agita, turbato da venti e tempeste, nella mia testa. 
Troppi sbalzi d'umore, nemmeno me stessa riesce a starmi dietro. 
3- 4- 3- 2- 1 + 1/2- 2, le ore di sonno di questa settimana. 
Una Vita fatta di cocci che tenta di ricomporsi. 
Nessun libro che sia possibile leggere, se non quello. 

Precarietà. Paura. Vertigine.
Abisso. Baratro. Albatro. 
Milano. Sera. Solo un'ombra. 
Letto. Lenzuola. Braccia. 
Pezzi-di-me.

Alba. Luci. 
Oceano. Mare. 
In-stabile.
In-quieta.
Per-turbata.
Universi.
Persone.


[E non state a controllare la metrica, la sintassi, i cazzi e i mazzi, oggi non me ne frega niente, oggi batto le sensazioni, su questa tastiera, senza filtri, senza rileggere.]

Casa, dove sei?
Tu, dove sei?
Me stessa, dove sei?

Né Bene né Male, solo irrequietezza. 

Inchiodata a te. Inchiodata a me.
Non te ne andare. 
Non ti lascio andare. 

martedì 20 marzo 2012

We love us.

"Sai di lacrime."

Provo a scriverne, da ieri. Provo a scriverne, per intrappolarlo nella carta, perché non se ne vada mai. 
[Lo sai, il terrore che ho che le cose svaniscano, scivolino via, perdano colore, contorni...]
Provo a scriverne e... e non ci riesco. 
Tanto. Tutto. Troppo? Mai. 
Totale. 

Della tua schiena non voglio mai stancarmi.  
Dei tuoi occhi. 
Delle tue mani. 
Delle luci che sappiamo catturare.
Della Natura che ci viene appresso. 
Delle sigarette, dell'uscire solo per andarle a comprare, tuta, felpa e sulla pelle noi. 
Della musica, che sembra spegnersi solo in certi momenti, quando, tanto, non la sentiremmo.
Dell'improvvisare. 
Dello scoprirsi. 
Del conoscersi. 
Dell'Essere, insieme. 
Del restituirsi la Vita così.

Amarti. Amarsi. Essere amata.

Mi dici che mi ami e mi chiedi se mi amo. 
Io... insegnami come si fa. 
In francese, magari. 

On air
Magnolia, Negrita
L'odore, Subsonica
Feeling this, Blink 182
Wishlist, Pearl Jam
... us. 


mercoledì 14 marzo 2012

Let's just breathe.

Giornate infinite che galleggiano nello spazio fra te e il mondo. 
Vieni a vivere come me, andiamo a vivere come noi. 
Bevo thè nero alla vaniglia, ascolto i Pearl Jam. Mi si è di nuovo aperto il labbro. 


Sono stanca... stanca, davvero. Giorni assurdi, tortuosi, immensi, gli ultimi. Sonni troppo brevi. Ma a che serve dormire... come faccio a dormire, quando ho tutto questo. 


Sento la tensione della corda che si sta per spezzare. 
-Ci sei a cena?
Sì, ci sono. Sì, ci sarò. Non farmi male, ti prego, non sbriciolare, come sempre, ogni cosa bella che ho. 
Non togliermi l'aria. 


Sei aria. Sei Vita, sei Vita che inizio a vivere. 
Manchi come la libertà. 


[...e sai tutto quello che scriverei, qui. E sai tutte le volte che ti bacerei, tutte le giornate che trascorrerei con te. Luci Rembrandt, parquet scuro. Albe e tramonti. Pelle. Le mille sfumature dei tuoi occhi. Il tuo modo di guardare il mondo. Il tuo modo di guardarmi. Nel tuo sguardo posso cadere. Sei una Vita che continuo a scoprire, sei una Vita che voglio vivere. E... il resto lo sai.]


...mi sento osservata. 
Mi sembra che questa casa si sia improvvisamente popolata. 
Ma... c'è posto per tutti. Devo solo decidere come gestire gli spazi. 
Giocatori, anche voi?

venerdì 9 marzo 2012

Speechless

Certe notti accadono.
Certe notti ti esplode il cuore.
Certe notti rimani a guardarti spaccata in due.
Certe notti ti sfuggono parole fra le dita, fra i baci, fra gli sguardi.
Certe notti ti chiedi come sia possibile, tutta quella Vita.
Certe notti non sai nemmeno come descriverle.


Siete Luci nel mio Abisso.

domenica 26 febbraio 2012

Albatros


Ogni mattina il mio stelo vorrebbe levarsi nel vento
soffiato ebrietudine di vita,
ma qualcosa lo tiene a terra,
una lunga pesante catena d'angoscia
che non si dissolve.
Allora mi alzo dal letto
e cerco un riquadro di vento
e trovo uno scacco di sole
entro il quale poggio i piedi nudi.
Di questa grazia segreta
dopo non avrò memoria
perché anche la malattia ha un senso
una dismisura, un passo,
anche la malattia è matrice di vita.
Ecco, sto qui in ginocchio
aspettando che un angelo mi sfiori
leggermente con grazia,
e intanto accarezzo i miei piedi pallidi
con le dita vogliose di amore.


Ogni mattina, Alda Merini



La pistola che ho puntato alla tempia si chiama Poesia.

La pazzia mi visita almeno due volte al giorno.


Mi sono sempre uccisa da sola.

mercoledì 22 febbraio 2012

Prove di convivenza 1.0


Mi sono persa una giornata. 
In senso fisico, temporale, concreto. Ho dormito per circa 30 ore. 
Un po' la febbre. Un po' il mal di testa. Un po' la vita che non ti risparmia e che tu sei lì ad aspettare.
I miei occhi hanno una strana linea color grigio scuro a contornare l'iride, oggi. 
Sono... tranquilli. Placidi. Lucidi. Sembrano liquidi. 
Non mi sto ponendo troppe domande. 
Ho le emozioni a fior di pelle. 
Ricordi notevoli. 
Crisi d'astinenza. 
Un film che non riuscirò più a guardare da sola, probabilmente. 
Mani. Occhi. Lacrime. Sorrisi.
L'amicizia sembra un sentimento troppo umano per poter racchiudere tutto questo.


Finirete per salvarmi, voi due.

domenica 12 febbraio 2012

martedì 7 febbraio 2012

Please don't die.


E all'improvviso il suo sguardo è mutato. 
E mi è crollata fra le mani. 
Pugni serrati, i suoi. 
E non saprei dirti come in un attimo ha saputo eliminare ogni muro. 
E non saprei dirti come, senza analisi razionale alcuna, mi sia andata a sedere di fianco a lei. 
Vorrei descriverti la vertigine. Vorrei descriverti la vertigine di un abbraccio che è salvezza. 
Che è volontà di salvare. 
Vorrei descriverti le mani che si stringono fino a farsi male.
Vorrei descriverti com'è, quando qualcuno si aggrappa a te. 
Vorrei descriverti com'è, quando qualcuno si fida di te.
Vorrei farti provare quello che ti esplode dentro, quando abbracci qualcuno per non lasciarlo cadere.  
Non ci sono parole, non ci sono pensieri, perché saresti troppo lontana. 
Devi afferrarlo, quel qualcuno.


[Non riesco a scrivere di più. Non credo si possa descrivere. 
Sai già.
In effetti, sai già anche tu.] 

sabato 4 febbraio 2012

Così.




"I’ve memorized all the fish in the sea
I’ve memorized each opportunity strangled
and
I remember awakening one morning
and finding everything smeared with the color of forgotten love
and I’ve memorized
that too."


Charles Bukowski.


[Giusto per dire che no, quest'uomo non scriveva solo di sbronze e sesso.]

martedì 31 gennaio 2012

Saltiamo. Ti prego, saltiamo.


Quest'insostenibile voglia di piangere. 
[Bisogno, anzi.]
Quest'incredibile voglia di un abbraccio, sebbene non lo sappia né dare, né ricevere.
[Bisogno, anzi, ancora.]
Questa sussurrata quanto disperata voglia di qualcuno che si prenda cura di me, di ciò che sono, che mi smonti e mi rimonti nel verso giusto.
[Bisogno, sì, lo so, sempre quello.]


Take me home. 
Portami in una casa che sia casa. Dove faccia caldo. 
Caldo. Calore. 
Faceva più caldo stanotte sotto la neve, a mani nude e con le Superga ai piedi, piuttosto che ora, qui, in questa stanza dalle pareti fra il vuoto e quello con cui vorrei riempirle, fra il disordine nel quale respiro e l'ordine che cerca di essere imposto, fra quello che sono, quello che dovrei essere, e quello che vorrei essere.


Dio, a volte vorrei semplicemente essere presa in braccio da qualcuno, ed essere portata via. 
Via da me stessa e da tutto questo che, ora, è un labirinto dal quale non so più uscire.
Mi ci hanno portata e ora sono qui, nel mezzo, fra siepi altissime e al buio, senza un'indicazione, una strada tracciata da seguire, per uscirne. 
Io... io non so che fare.
Io. non. so. che. fare. 
Qualcuno può dirmelo?


Non le voglio, ho smesso di cercarle. 
Ma, ogni tanto, una risposta, il paliativo di un punto fermo e sicuro, farebbe bene. 
Se non bene, meglio. 


Ho sempre pensato che ci si salvasse da soli. 
Ho imparato a credere che confidare negli altri non porta da nessuna parte. 
Non ho mai chiesto, davvero, a qualcuno di essere accompagnata.
Non ho mai cercato qualcuno sul quale contare. 
Mi sono dimenticata come si chiede aiuto. 


[E mentre scrivo tutto ciò, nella mia testa risuona la voce di chi mi ha sempre ripetuto che i deboli non si sanno salvare, i deboli hanno bisogno di aiuto, i deboli non hanno sufficiente forza di volontà.
Allora sono debole?
Va bene, sono debole. 
E appurato ciò? Ora che lo sai? 
Non sono degna di stare bene perché non mi so salvare da sola?]


Avevo giurato a me stessa che non avrei più scritto cose del genere in un blog. 
Si cambia idea. 
Si scopre che dall'umano che si è non si può fuggire. 
Si comprende che sì, ho bisogno di te.
Fa una paura fottuta, arrendersi all'evidenza di aver bisogno di qualcuno. 
Fa una paura fottuta, l'idea di poterti deludere. 
Fa una paura fottuta, la consapevolezza che nemmeno tu potresti bastare. 


Ma cos'altro posso fare, ora, col Nulla che mi ritrovo a stringere fra le mani, se non fidarmi?
Io mi fido di te. 


I want to move on
I want to have hope
So I'm willing to change
I'm going to try
To show that I'm strong enough to
...Trust in You. 


On air: "Aggiungi file alla Libreria" da Dropbox. - Riproduzione casuale. 

sabato 28 gennaio 2012

Still here.


But I'm still... here. 


Mi chiedo perché, dopo tutti questi anni [tutti? Secondo quale metro di paragone questi anni possono essere tanti? Magari sono ancora pochi.], io sia ancora qui.
Qui, a cercarti fra le canzoni che lasciano risuonare i ricordi, qui a trovarti fra pagine scritte in un passato che, forse, non è ancora passato. 


Imprinting. Forse è per questo che ti cerco in ogni sguardo che incontro. 
Imprinting. Forse ti ricorderò per sempre. [Dio, spero di ricordarti per sempre...] 
Imprinting. Forse non ho il coraggio di trovarti per la paura di vederti scomparire, non appena i tuoi contorni saranno ritornati abbastanza netti. Come sempre. 


Forse mi ostino a tessere fili rossi. 
Per paura di dover lasciare andare anche te, sebbene non ti abbia mai, davvero, avuto.
Forse mi ostino a chiedere "Ti ricordi di me?", mentre invece dovrei dirti "Mi ricordo di te."
Perché lasciare andare il passato sembra sempre cancellarlo? Perché non può essere una liberazione?
Indulgenza.
Auto-indulgenza. 
[Da qualsiasi prospettiva la si guardi, mi manca.]


[Datti pace.]


Mi ricordo di te.
Ogni volta che mi guardo allo specchio. 
Ti ho lì, dove i miei occhi non si posano mai, dove tento di non far arrivare mai nessuno sguardo. 
E in quel punto c'è tutta la rabbia e tutto il dolore, c'è tutta quella notte, e tutte le altre, trascorse con il fantasma di te, che rendeva fantasma me.


Scrivo che sei una questione in sospeso, e mi chiedo se, invece, tu non sia solo l'ennesima alternativa al Vuoto. 


-E cosa arrivi a stringere fra le mani, vivendo così, se non un pugno di mosche?


Un pugno di mosche, un pugno di ricordi. 


Sei l'unico che non ho mai lasciato andare.
Sei l'unico dal quale non sono mai scappata.
Sei l'ennesima àncora? O sei il punto di partenza, al quale ritornerò, dopo aver fatto il giro del Mondo?


Non mi manchi. Ma ti penso. Anzi, penso a te. 
Tutto qui. 


La verità è che non posso fare l'amante a vita. 
Delle amanti non resta traccia. 




[E' la neve.
E' l'inverno che arriva e si porta dietro tutti gli altri inverni, i loro freddi.
E' la stanchezza, la settimana pesante, i sonni agitati.

E' la Vita, Agnese.
E' la Vita che chiama e alla quale tu hai paura di non saper rispondere, come sempre. E' la Vita che c'è e che tu non puoi ignorare. E' la Vita che tu sai vivere così.

E' che non ci sono solo te stesse cannibali e nascoste in fatiscenti casupole da mostrare agli altri.
E' la rabbia, lecita ma mai abbastanza.
E' che la responsabilità non la si può scagliare addosso agli altri, come le parole. 

E' che vaffanculo.
E' che everybody needs somebody to love.
E' che ho lasciato le sigarette in macchina.
E' che ho fallito. Ho fallito, cazzo. E ho preferito indossare l'ennesima maschera piuttosto che farmi vedere vulnerabile e non-perfetta agli altri.
E' che non avere paura non significa non farsi domande.
E' che certe strade dovrei dimenticarle.
Altre smettere di volerle raddrizzare.
In certe strade, invece, divellere l'asfalto.
E' che il passato ritorna sempre, senza sangue, ma ugualmente doloroso. 

E' che io di sguardi vivrei. 


E' che... nelle parentesi c'è sempre più altrove.
E' che, comunque, non me ne vado.]


On air: Il silenzio della neve, del sabato pomeriggio, dei diari riletti, dei vecchi racconti. 

martedì 24 gennaio 2012

Kierkegaard, fottiti. With love.

E... no, non riesco a essere nervosa. 


[Le mie frasi che iniziano con una congiunzione. L'italiano, Agnese, l'italiano. Ma no, è che probabilmente sono precedute da qualcosa che non scrivo, né dico. Ah, ecco.]

Non riesco a studiare con l'idea che domani darò un esame. 

Leggo, come quando leggo i libri di cui m'innamoro.
Finisco un autore e scrivo in fondo agli appunti "Chapeau.", perché mi ha stupita.
Altrove lascio un "Wtf." a fianco di un paragrafo. 

O un "Non avevi capito un cazzo."
O magari un un "Cvd.".

Studio perché voglio, non perché devo. Il manuale? Boh. Leggo i testi, funzionerà comunque?
Non ce la faccio. A tornare a fare le cose perché devo farle. Non ne sono più capace.

E' impossibile tornare indietro, una volta che hai sperimentato l'ebbrezza del fare qualcosa perché vuoi farlo. 


Mi chiederò come farò mai a dare latino. 
Ci penserò a tempo debito, iniziamo a dare filosofia domani. 
Do-ma-ni.


[Ho sognato che l'esame si teneva sui bastioni di un castello; iniziava nella nebbia fitta del mattino e si concludeva con una splendente luna piena a illuminare me e il professore.
Mi chiedeva di Empedocle, ed era l'unica domanda da esame. Per il resto, era esattamente come stare in bilico sopra a un fossato.]



C'è qualcosa che devo scrivere. 
Qualcosa che voglio scrivere, meglio. 
C'è qualcosa. Che s'impiglia nei fili [il]logici della mia mente da giorni. 


Magari stanotte. Magari domani. Magari chissà.


Forse, semplicemente, questa è la chiave. 
Quando sei in auto con qualcuno che non vuoi ammazzare, inevitabilmente ti salvi, per quanta voglia tu possa avere di andarti a schiantare a 100 all'ora contro un muro. 
Forse, questa è la chiave. 


Torno ad Antifonte. 

mercoledì 18 gennaio 2012

530

Ci sono tre tipi di uomini: quelli che vivono davanti al mare, quelli che si spingono dentro il mare, e quelli che dal mare riescono a tornare, vivi. 


Il resto, è solo un salto.

domenica 15 gennaio 2012

I want to find something I've wanted all along, somewhere I belong.

Voglio andare a correre.
Me lo dico guardando fuori dalla finestra della sala, la ghiaia del cortile ancora ricoperta dalla brina, il cielo di cristallo delle mattinate invernali.
Fra poco vado a correre. 
Lo dico a mia madre che scuote la testa, con la stessa rassegnazione che ha da anni ormai, facendomi notare la sciarpona avvolta attorno alla mia gola dolorante e la voce nasale con la quale mi sono svegliata.
Devo andare a correre. 
Mi dice il mio sguardo, perentorio e severo [occhi particolarmente scuri stamattina], dallo specchio del bagno, accompagnato dalla stretta quasi soffocante delle mani sui fianchi, dal pungente ficcarsi delle unghie nella carne.
Mi avvicino allo specchio, così vicino da sfiorarlo con la punta del naso.
Un alone di condensa appanna il vetro vicino alle narici.


Mi guardo negli occhi.
Chiedendomi quale sarà la prossima mossa.
Cos'hai in mente?


Niente, nessuna risposta, non mi è dato di sapere.
Occhi particolarmente scuri stamattina.


Mi volto di scatto, come a dare le spalle a qualcuno, poco importa che in realtà quel qualcuno sia il mio sguardo su di me.
Mi tolgo i vestiti, prima i jeans, poi il maglione.
Continuo a dare le spalle allo specchio.
Infilo la canottiera, i pantaloni della tuta. Infine la felpa a collo alto. Chiudo la zip.
Snodo lo chignon, riavvio velocemente i capelli passandovi le mani attraverso tre-quattro volte, li raccolgo nuovamente, ma in una coda alta.
Esco dal bagno evitando lo sguardo dello specchio, ma con la sensazione, sgradevole e insopprimibile, di essere osservata.


Vado a correre.
Vediamo se torno con uno sguardo diverso.


On air: Somewhere I belong, Linkin Park [sempre perfetti, cazzo.]

mercoledì 11 gennaio 2012

Strade, orbite, rotonde, cartoni della pizza che diventano casse per l'iPod e molto, molto, altro.

A volte, è nel buio che trovi la luce.
A volte, si ha bisogno di una strada, che affianchi il Lago con i suoi riflessi e le sue onde. 
A volte, ci si mette in macchina e si guida, con un cd che ci si dimentica -o non si vuole- cambiare, non da sola. 


[Non da sola. 
A volte, le definizioni in negativo si rivelano estremamente utili.]


A volte, si sfiora un confine senza nemmeno accorgersene, pensando che sia stato il modo migliore con cui si sia mai svuotato il serbatoio della benzina.
A volte, si cambia programma e si apre una finestra, sul mare, sul futuro, su un tetto. 
A volte, si trova una rotonda. Altre, nemmeno un posto dove invertire il senso di marcia. 
A volte, si improvvisa. 
A volte si torna a casa storditi, frastornati. 
Dove siamo andate, dove sono stata, dove l'ho portata. 
Gira un po' la testa. 


Sono... visibile. 
E senza parole, ancora. 


Spero che il momento di dire "grazie" non arrivi mai. 

lunedì 9 gennaio 2012

"Persone, prima di tutto persone."


Guardo la Luna. 
Ancora in auto, nel parcheggio. Incapace di tornare a casa.
Mi chiedo cosa mai abbiamo fatto, noi umani, per meritarci un simile spettacolo.
Mi chiedo cosa mai abbia fatto, io, per meritarmi certe persone. 


Gli aeroporti, la notte, fanno ancora più effetto.
E che impressione accompagnarti, guardarti, ogni volta, partire. 
Ti abbraccio e le mie dita premono nel tessuto del tuo cappotto, come a cercare un appiglio, chissà se per sostenere me, o se per non lasciare andare te.
Dirti "ciao" stona sempre.
Ti saluto senza parole e con gli occhi lucidi, consapevole che fra qualche mese saremo ancora qui, tu ed io, un po' più grandi, con un poco più di vita nel cuore.


Io rimango qui, eppure mi sembra di essere appena partita, come te. 
Rimango nella mia auto, con i miei cd, a scrivere su un quaderno, con una bic pescata dal fondo della mia borsa.
E una Luna straordinaria da guardare.


Non posso che commuovermi. 


Come possono certe giornate rispondere a domande banali come "Cos'hai fatto oggi?", come posso dirti cosa ho fatto, anziché andare in Università, come ti ho detto? Come posso spiegarti cosa mi è rimasto, dentro, da questa giornata?
Fra le nuvole rosa dell'alba, e quelle del tramonto, come posso spiegare dove sono stata?


Ho preso un treno, perché non avevo altro da fare. Perché non sapevo cos'altro fare. 
Ed è stato strano, perché di solito quando prendo treni del genere, improvvisati e un po' disperati, sono sempre sola, con un libro e molte canzoni, ma nessun altro.
E' bello trovare un treno nuovo, ogni tanto.


Ho visitato un orto botanico nel mezzo di una Città, e un Universo fra le parole e gli sguardi di una persona. 


Mi sono ritrovata su una scogliera, una bianca scogliera di Dover che si stagliava alta e ripida sui marosi che si frantumavano ai suoi piedi.
Ho guardato giù. E ho sentito la stretta allo stomaco della vertigine, quando ti sporgi troppo e sai che perderai l'equilibrio.
Ho quasi sentito l'impatto con l'acqua, gelida e implacabile. Mi sono vista annaspare cercando di raggiungere la superficie, alla ricerca dell'ossigeno.


E invece no, non sono caduta. 


La "possibilità di sì" vale meno di un "no". 
Non è semplice da accettare, ma è dai punti fermi che si riparte.


Sono poi tornata, e c'era uno strano inverno troppo mite.
Lago, barche ormeggiate e gabbiani. 
Smettiamola di fare i gabbiani.


Come posso descriverti l'infinità di certe giornate, fatte di persone, durante le quali ti fai persona?


Guardo la Luna. 


Il cellulare trilla, un messaggio.


Amicizia. 
Ti sembra una cosa da poco, dalla quale partire?

lunedì 2 gennaio 2012

Non scelgo titoli prima di scrivere una storia


Sono qui, con il niente in mano che rimane in certe sere.
Ho voglia di scriverti una lettera, ho voglia di scriverti.


No, non ho voglia di scriverti, dannazione. 
Ho voglia di trovarti. E afferrarti. E guardarti negli occhi. 
Ho una voglia maledetta di sentirti. Di sentire. Di nuovo. 
Ho voglia di essere folle e assurda, come sono, ma con te. 
Ho voglia di poesia e di arte, di bellezza tanto intensa da far male, ti trascorrere ore in libreria con te, di fartela vivere, come la vivo io.
Ho voglia che mi lasci senza parole.
Ho voglia di salutarti con un bacio sulle labbra, quando ti alzi per andartene. 
Sii folle, ti prego. Sii folle e fammi sentire viva. 
Sono qui. Sono qui. Sono... qui.
Mi sono persa troppe volte per accontentarmi di emozioni comuni. (ammesso che esistano)
Sono andata troppo a fondo per trovare qualcosa di significativo in superficie. 
I limiti si spostano.
Dammi la mano, andiamo ad assaggiare la vertigine. 
A giocare con l'adrenalina. 
A toccare i vuoti nello stomaco. 
A contare le stelle. 
A bruciare per illuminare. 


E' vita, cosa ci vuoi fare.
Sono viva, cosa ci posso fare. 
Non ce le hanno insegnate, le mezze misure. 
Non sono capace di galleggiare. 
Nella razionalità soffoco. Nella ragionevolezza implodo. Nell'ordine agonizzo. 


Vieni a vivere come me?